L’attuale dibattito
culturale e politico sul biotestamento, pur non riguardando direttamente l’eutanasia,
è fortemente influenzato dai riferimenti a questo tema e le riflessioni sul
fine vita rischiano di appiattirsi su posizioni dettate dall’emotività e
fortemente condizionate dal clamore mediatico suscitato da vicende come quella
di dj Fabo e Davide Trentini. Tuttavia la rivendicazione del diritto a essere
liberati da una vita ormai “insopportabile”, nel rispetto della volontà della
persona, era già promossa da Binding e Hoche negli anni venti, fu fatta propria
dagli ambienti maggiormente progressisti della Repubblica di Weimar e, in
seguito, fu rielaborata con ferocia inaudita dal nazismo. Le sottostanti
sensibilità e i discorsi di cittadini e tecnici sull’argomento hanno molti
punti di contatto con quelli di oggi. Inoltre i recenti casi di Marwa e Charlie
in Francia e Inghilterra, così come l’evoluzione dei “protocolli” sull’infanticidio
in Olanda, pongono ulteriori interrogativi. Forse val la pena provare ad aprire
la riflessione sul fine vita anche a una prospettiva storica, oltre che a una comparazione
con contesti a noi vicini.
Recentemente è stato pubblicato un
testo dello storico Gotz Aly dal titolo “Zavorre”
(2017). L’autore specifica sin dall’inizio l’argomento e la prospettiva del suo
studio: “Tra il 1939 e il 1945, circa 200.000 tedeschi furono vittime delle
uccisioni per eutanasia. I numerosi responsabili parlavano eufemisticamente di
sollievo, interruzione della vita, morte misericordiosa, aiuto a morire o,
appunto, di eutanasia. Costoro agivano in parziale segretezza, ma nel bel mezzo
della società”.
E’ una prospettiva particolarmente
impegnativa giacché sembra voler restituire a un’intera società il fardello di
alcuni crimini nazisti, analizzando i meccanismi e le logiche, per certi
aspetti ancora attuali, che ne hanno permesso l’attuazione. La dedica del libro,
“scritto nel corso di trentadue anni”, è alla figlia Karline che: “Poco dopo la
nascita, nel 1979, contrasse un’infezione da spreptococco, che oggi si previene
con un esame di routine. In seguito a un’encefalite, Karline subì un grave
danno cerebrale. Ogni volta che ha bisogno di qualcosa, ride e piange, mostra
gioia e cattivo umore, ama la musica, il buon cibo, ogni tanto un po’ di birra,
e gli ospiti. Ma la sua vita non è facile. Subito dopo la sua nascita, Karline
mi ha avvicinato al tema delle «uccisioni per eutanasia» nella storia
contemporanea, di cui da allora mi sono continuamente occupato”.
Nel primo capitolo del testo “Un peso tolto
dalla coscienza”, l’autore avvia le sue riflessioni dall’analisi di una
domanda:
“ «Un medico può uccidere?»,
chiedevano i neurologi della Sassonia durante la loro assemblea annuale nel
1922. Lo spunto era offerto dal manifesto La liberalizzazione della
soppressione della vita senza valore, pubblicato poco prima da due prestigiosi
eruditi, lo psichiatra friburghese Alfred Hoche e il docente di diritto penale
di Lipsia Karl Binding. Uno dei medici sassoni che partecipavano al dibattito,
il consigliere sanitario Otto Hösel, fece notare quello che riteneva un
singolare controsenso, insito nel fatto che a esprimersi «in favore della morte
degli idioti fossero le stesse persone che» chiedevano «l’abolizione della pena
di morte per i criminali».
Menzionava così un nesso che dopo il
1933, e anche nel 1945, fu messo a tacere. In favore dell’aiuto a morire, di
una morte dignitosa o della dolce morte si dichiararono spesso, negli anni
Venti, quei politici impegnati che combattevano contro la pena di morte e il
divieto di abortire, che rivendicavano i diritti delle donne, che volevano
nobilitare il tabù del suicidio con l’idea di una morte scelta individualmente,
rendere più facili i divorzi e in generale forme di vita più libere”.
L’autore prosegue nella sua analisi
evidenziando i limiti di tali discorsi e dei loro sostenitori:
“Fra il 1939 e il 1945, in nome del
governo tedesco fu perpetrata l’uccisione, definita eutanasia, di circa 200.000
membri di famiglie tedesche. La resistenza rimase nel complesso limitata. Là
dove esplose la protesta, questa si alimentò ben poco dei principî del moderno
Stato di diritto o delle idee di un umanesimo secolarizzato, piuttosto si nutrì
della fede, già da tempo indebolita, nell’immagine e somiglianza divina di ogni
essere umano – sia esso storpio, idiota o deficiente, bisognoso di cure o
gravemente sofferente”.
Per quanto riguarda gli esecutori
materiali del “programma Eutanasia” l’autore evidenzia come si trattasse, per
la quasi totalità, di personale sanitario: “Medici, infermiere e infermieri che
partecipavano a questo programma non erano necessariamente nazisti convinti e –
salvo poche eccezioni – dopo il 1945 poterono continuare la loro professione
come stimati cittadini”.
Gotz Aly cita all’inizio della sua
trattazione un testo cui spesso si fa riferimento per identificare natura e
significato del programma di eutanasia nazista: “L’autorizzazione all’uccisione delle
vite non degne di vivere”. Il testo è del 1920 ed è opera di un giurista
Karl Binding e di un medico, Alfred Hoche. Ripercorrerne alcuni passaggi
potrebbe aiutare a valutare la presenza di alcune continuità con il dibattito
attuale sul fine vita. Nella prima parte del lavoro, opera di K. Binding, ci si
sofferma ampiamente sul “diritto a morire” da parte di persone che ritengono la
propria vita ormai “insopportabile”:
“La nostra ricerca iniziale è arrivata
alla seguente conclusione: al momento attuale solo il suicidio e giuridicamente
non vietato. […] Un permesso ulteriore potrebbe essere solo quello relativo
all’uccisione del prossimo. Esso avrebbe come effetto qualcosa che il permesso
suicidio non ha: un’autentica limitazione del divieto giuridico di uccidere.
Poiché la concessione di questo permesso è stata recentemente difesa diverse
volte, è stato coniato per questo movimento, come slogan, l’espressione diritto
a morire. Questa espressione non designa un vero diritto a morire, ma soltanto
una rivendicazione, che si vuole riconosciuta giuridicamente, da parte di una
determinata persona ad essere liberata da una vita insopportabile. […] Ogni uccisione
non vietata di un terzo deve essere sentita, quantomeno dall’interessato, come
una liberazione: altrimenti si tratta di un’azione di per sé vietata. Da ciò si
trae una conclusione necessaria incondizionata: il pieno rispetto del volere di
tutti, anche dei più malati, delle persone che soffrono i tormenti più forti e
delle persone che non sono di alcuna utilità. L’ordinamento giuridico non può
permettere in nessun caso di procedere come l’assassino o l’omicida colposo che
spezzano con violenza la volontà di vita della vittima. Va da sé che anche nei
confronti del disabile mentale che si sente felice della sua vita non si può
parlare di concedere un permesso di ucciderlo”.
Il giurista prosegue nella sua
trattazione individuando tre categorie di persone (due gruppi principali e uno
intermedio), da prendere in considerazione:
“1) Abbiamo, innanzitutto, le persone
condannate irrimediabilmente in conseguenza di una malattia o di un trauma, che
sono nel pieno possesso della ragione e che hanno il pressante desiderio di
morire e hanno avuto in qualche modo l’apposita di farlo sapere agli altri. […]
Non mi sembra necessario che la richiesta di morire sia strettamente legata
alla presenza dei dolori insopportabili. Una condizione senza speranza merita
egualmente compassione anche se senza dolore.
2) Al secondo gruppo appartengono i
deficienti incurabili sia che siano nati così sia che lo siano diventati, così
come i paralitici nell’ultimo stadio della loro sofferenza. Essi non hanno né
la volontà di vivere né di morire. […]
3) Ho parlato di un gruppo di mezzo e
di esso fanno parte le personalità sane dal punto di vista mentale che per un
qualche evento, come per esempio traumi gravi e senza dubbio mortali, sono
diventati incoscienti e che, se un giorno ritorneranno ad essere coscienti,
scoprirebbero di trovarsi in una condizione di miseria indicibile. […]”
Successivamente sono individuati i
requisiti minimi per ottenere il “permesso di morire”:
“Quindi le persone candidate per avere
permesso di morire sono sempre soltanto i malati senza speranza, e alla
situazione senza speranza deve accompagnarsi sempre la richiesta della morte, o
è da presumere che il consenso ci sarebbe se il malato non fosse caduto nel
momento critico della perdita di coscienza, o se fosse potuto arrivare a
prendere coscienza della sua situazione. Come sopra ricordato, escluso ogni
permesso relativo all’uccisione che contrasti la volontà di vivere della
persona da uccidere o dell’ucciso”.
Nella parte finale della trattazione
l’autore declina in alcuni punti le modalità organizzative in cui tradurre
operativamente il “diritto a morire”:
“Poiché lo stato di oggi non può
prendere l’iniziativa di praticare tale uccisione:
1) l’iniziativa deve essere rimessa,
nella forma di una richiesta di permesso, agli aventi diritto;
2) questa domanda va indirizzata a
un’autorità statale. Il suo primo compito consiste interamente e solo
nell’accertamento delle condizioni del permesso: che sono gli accertamenti
relativi alla malattia senza speranza o alla deficienza inguaribile, ed
eventualmente quelli relativi alla capacità del malato di esprimere un consenso
nel caso che riguarda le persone del primo gruppo. Da ciò discende la
composizione della commissione: un medico per le malattie fisiche, uno
psichiatra un secondo medico con esperienza nella cura delle malattie mentali,
e un giurista, con il compito di controllare che i diritti delle persone
coinvolte vengano rispettati.
3) nella sua deliberazione il comitato
può solo stabilire che le condizioni del malato sono, considerate le
possibilità scientifiche attuali, inguaribili, eventualmente che non ci sono
ragioni per dubitare della serietà del suo consenso, e che di conseguenza non
c’è alcuna ragione per impedire l’uccisione del malato; al richiedente sarà
data la facoltà di liberare il malato dalle sue sofferenze in maniera
appropriata. A nessuno può essere concesso un diritto all’omicidio, né
tantomeno un dovere di uccidere, neppure al richiedente. La messa in opera deve
essere prodotto della compassione per il malato. Il malato che ha chiarito il
suo consenso nel momento più solenne, può naturalmente sempre pensarci, e far
venir meno, successivamente, le condizioni del permesso. Inoltre, si potrebbe
raccomandare l’indicazione del mezzo appropriato di eutanasia. La liberazione
deve avvenire assolutamente senza dolore e l’intervento eutanasia dovrebbe
essere praticato da una persona competente ed esperta.
4) riguardo all’atto di esecuzione
spetterebbe al comitato di stendere un protocollo accurato”.
Per quanto riguarda la seconda parte
della trattazione, opera del medico A. Hoche, vale la pena richiamarne alcuni
passaggi di carattere generale e relativi all’etica medica:
“I punti commentati nella trattazione
giuridica precedente non hanno bisogno tutti e in egual misura di chiarimenti
dal punto di vista medico. Il problema della natura giuridica del suicidio e
dello status giuridico dell’uccisione del consenziente non ci occuperanno
oltre; tutto il resto invece interessa molto noi medici, in quanto per ragioni
professionali le nostre teste sono attraversate da una serie di pensieri relativi
ad interventi, punibili e non, sulla vita altrui. Il rapporto del medico con
l’uccidere in generale richiede una particolare discussione. […] Il medico non
ha un rapporto assoluto con il dovere fondamentale di conservare la vita altrui
in ogni circostanza, solo un rapporto relativo che può mutare con il mutare
delle circostanze. L’etica medica non va considerata un modello sempre uguale a
se stesso. L’evoluzione storica ci mostra da questo punto di vista chiari
cambiamenti. Qualora l’uccisione degli inguaribili o l’eliminazione degli
individui mentalmente e spiritualmente morti fosse considerata non solo non
punibile, ma anzi uno scopo desiderabile in vista del bene comune, e dunque
accettabile, non si troverebbero nell’etica medica ragioni di escluderle.
Senza dubbio i medici proverebbero un
sollievo di coscienza se, nel proprio agire nei riguardi dei morenti, non
fossero più vincolati all’imperativo categorico di prolungare ad ogni costo la
vita, […] Il principio, in sé da riconoscere, del dovere del medico di prolungare
la vita il più possibile, se è spinto all’estremo si trasforma in un non senso:
la buona azione diviene un tormento”.
Guardando, quindi, da una prospettiva
storica al tema del fine vita in relazione al nazismo, si deve rilevare come i
discorsi sull’eutanasia di cui il Terzo Reich si appropriò, e che rielaborò con
ferocia inaudita integrandoli in una prospettiva razzista, non nascevano al suo
interno, ma nell’ambito della Repubblica di Weimar e riguardavano, principalmente,
la “rivendicazione, che si vuole riconosciuta giuridicamente, da parte di una
determinata persona a essere liberata da una vita insopportabile”. Il punto di
partenza non era posto in una valutazione esterna, era principalmente una
valutazione dell’individuo sulla propria vita che non riteneva più degna di
essere vissuta e sul suo diritto a porvi termine. Gli argomenti e le
sensibilità degli esperti e della gente comune mantengono diverse continuità e
diversi punti di contatto dagli anni venti a oggi. Proprio su tali aspetti e
sul consenso che si poteva aggregare intorno ad essi, si concentrerà la
propaganda del regime nel corso della seconda guerra mondiale. Paradigmatica in
tal senso la diffusione nel 1941 del film "Ich
klage an" (Io accuso). Il film trattava l'argomento dell'eutanasia da
una prospettiva e con una sensibilità per molti aspetti simili a quelle che accompagnano
il dibattito odierno: la moglie di un famoso medico, bella e vitale, si
ammalava improvvisamente di sclerosi multipla. Dopo indicibili sofferenze chiedeva
al marito di aiutarla a morire. Il marito molto combattuto e dopo aver provato
in ogni modo ad aiutarla acconsentiva alla sua richiesta. Veniva per questo
denunciato e subiva un processo che si concludeva con le dure parole che
rivolgeva ai giurati e da cui è tratto il titolo del film: “Ora sono io che
accuso! Accuso una legge che ostacola medici e giudici nel loro lavoro a
servizio della gente. Io non voglio che il mio caso sia nascosto sotto un
tappeto. Voglio un verdetto. Non importa quale. Servirà come segnale, come
possibilità di cambiamento. Lo confesso. Ho liberato mia moglie dalle sue
sofferenze, seguendo la sua volontà. La mia vita dipende dal vostro verdetto e
anche le vite di tutti coloro che dovranno sopportare la stessa sorte di mia
moglie. Ora esprimete il vostro giudizio.”
Il film fu visto da 18 milioni di
persone e fu premiato alla Mostra internazionale di arte cinematografica di
Venezia del 1941. Nel “Rapporto dal Reich”, stilato dal “Servizio di sicurezza
del Reich” (SD), il 15/01/1942, relativo alla diffusione del film, che terminava
evidenziando come: “[…] dalla massa di materiale disponibile emerge una
generale approvazione della pratica dell’eutanasia, quando decisa da una
commissione di più medici e con il consenso del malato incurabile e dei parenti”.
Se, quindi, una prospettiva storica
quanto più approfondita e consapevole è fondamentale sia per acquisire maggiore
consapevolezza di alcune continuità di pensiero, sia per valutare con maggiore attenzione
le potenziali derive di alcuni discorsi sul fine vita; altrettanto fondamentale
è un allargamento del campo visuale su quanto sta accadendo in contesti vicini
a noi. La grande influenza sull’opinione pubblica del suicidio assistito di DJ
Fabo e di Davide
Trentini pare aver monopolizzato la prospettiva da cui guardare all’argomento
portando a impostare, o a far ruotare, tutti i discorsi e le riflessioni principalmente
a partire da situazioni come o simili alle loro. Tuttavia tali situazioni
rappresentano solo una parte di quelle relative ai potenziali destinatari della
normativa che riguarda anche, ad esempio, vicende come quelle del giovane
Charlie in Inghilterra e della giovane Marwa in Francia, attorno a cui si è
sviluppato un ambio dibattito pubblico, e il cui esito antitetico dà la misura
della delicatezza e delle complessità del tema.
Charlie
è un bimbo inglese di otto mesi cui è stata diagnosticata una rara malattia
genetica e che, secondo i medici, non ha speranze di sopravvivere a lungo e non
è possibile escludere che non stia soffrendo. Nonostante questo i genitori non
vogliono arrendersi e vorrebbero portare il figlio in America per una cura
sperimentale. L’Alta Corte di Londra ha accolto il parere dei medici
autorizzandoli a staccare la spina al piccolo.
Marwa
è una bambina francese di 15 mesi che ha contratto un virus a fine settembre
che l’ha completamente paralizzata. Di fronte alla richiesta delle autorità
sanitarie di Marsiglia di sospendere le cure, il Consiglio di Stato francese si
è recentemente pronunciato per il mantenimento dei trattamenti come richiesto
dai genitori.
Sono evidenti i dubbi e le difficoltà
che tali situazioni pongono, soprattutto se rilette alla luce del testo
dell’attuale DDL
sul biotestamento: “nel caso di paziente con prognosi infausta a breve
termine o d’imminenza di morte, il medico deve astenersi da ogni ostinazione
irragionevole nella somministrazione delle cure e dal ricorso a trattamenti
inutili e sproporzionati”.
Se
poi ci interroghiamo sulle potenziali derive di un testo che non esclude
chiaramente l’eutanasia (che, anzi, molti parlamentari vorrebbero inserire nel
testo), dovremmo confrontarci con quanto ci insegna l’attuale situazione olandese
in cui dopo che, con il Protocollo di Groningen a cura del prof. E. Verhagen (New
England Journal of Medicine 2005; 352:959-962), è stata introdotta la
depenalizzazione dell’infanticidio in situazioni terminali e/o di grave
sofferenza (pur includendo in tale casistica ad es. la spina bifida), da
qualche anno, sempre attraverso gli studi e le teorie del prof. E. Verhagen, si
sta allargando la platea dei potenziali destinatari, includendo tutti i bambini
con disabilità o coloro le cui prospettiva di vita sono “fosche” (“If abortion,
at the parents’ request, is thought to be permissible under certain
circumstances, then infanticide should also be permissible” Journal of Medical
Ethics 2013;39:293-295).
E’
evidente il ruolo di primo piano dei medici nella questione concernente il fine
vita. Bisognerebbe, però, ricordare come non sia priva di rischi questa
centralità e questo potere che è loro assegnato. Medici e personale sanitario
furono i collaboratori nell’ideazione e gli esecutori del programma di
eutanasia nazista in cui, come ricorda Henry Friedlander nel suo libro “Le
origini del genocidio nazista”, non solo ebbero un ruolo centrale, ma anche
“volontario”, in quanto nessun medico fu obbligato direttamente, potevano
dissociarsi e/o chiedere dispense dal servizio, ma “a quanto pare, questi
giovani medici furono spinti ad agire dal profitto personale e da ambizioni
professionali”. Motivazioni che potrebbero apparire ancora attualissime e che
ripropongono, in tutta la sua drammatica attualità, l’interrogativo che poneva
nel corso di un convegno tenutosi a Bolzano nel 1995 la dott.ssa Alice
Ricciardi von Platen, membro della
‘Commissione di Osservatori’ inviata dall’Ordine dei medici della Germania
Occidentale per il Processo
dei medici di Norimberga: “L’uomo comune o il professionista, saprà opporsi
e/o protestare se si trovasse di nuovo di fronte alle pretese umanamente
inaccettabili di uno Stato suffragate dal mondo scientifico”?
In
conclusione ritengo che le nostre prospettive nell’affrontare il tema del fine
vita dovrebbero arricchirsi sia in profondità, restituendo alla dimensione
storica e alle possibili genealogie riscontrabili il giusto peso e valore, sia
in ampiezza, provando a guardare oltre il clamore mediatico che si è sviluppato
intorno ai recenti casi di cronaca e provando a metterci dal punto di vista di
tutte le persone potenzialmente interessate da una legge sul fine vita, perché
possa essere una norma capace di tutelare e garantire realmente i diritti di
tutti.