“Io accuso”. Eutanasia, cinema e nazismo.

Nel 1941 la propaganda nazista diffondeva nelle sale cinematografiche il film "Ich klage an" (Io accuso). Il film trattava l'argomento dell'eutanasia da una prospettiva e con una sensibilità per molti aspetti simili a quelle che accompagnano il dibattito odierno. Rivedere il film può essere un'occasione per ripensare e, eventualmente, integrare le differenti posizioni sul tema, interrogandosi anche su questa continuità di sentire e sulle sue potenziali ricadute. 

Il 27 febbraio 2017, con un tweet veniva diffusa, dal dirigente di un’associazione radicale, la notizia della morte di Fabiano Antoniani, in arte DJ Fabo.
Il messaggio arrivava dalla Svizzera, precisamente dalla clinica Dignitas, dove, pochi istanti prima, DJ Fabo facendo ricorso al suicidio assistito (pratica medica legalizzata in questo paese), aveva posto fine a una vita che riteneva ormai priva di senso, e le cui giornate “intrise di sofferenza e disperazione”, lo portavano ad affermare: “Fermamente deciso trovo più dignitoso e coerente, per la persona che sono, terminare questa mia agonia”.
DJ Fabo, già diverso tempo prima di questa scelta, aveva intrapreso una battaglia per provare a sollecitare le istituzioni a legalizzare l’eutanasia in Italia, lotta in cui aveva anche scritto al Presidente della Repubblica Mattarella una lettera (rimasta senza risposta), che terminava con le seguenti parole: “Vorrei poter scegliere di morire, senza soffrire. Ma ho scoperto che ho bisogno d’aiuto. L’Associazione Luca Coscioni ha depositato in Parlamento una proposta di legge per legalizzare l'eutanasia. Ma sono passati più di 3 anni, e non è stato deciso ancora niente. Signor Presidente, sappiamo che non spetta a lei approvare le leggi. Le chiediamo però di intervenire affinché una decisione sia presa. Per lasciare ciascuno libero di scegliere fino alla fine”.
DJ Fabo con la sua morte, e con quanto l’ha preceduta, ha contribuito a riportare prepotentemente alla ribalta, in Italia, il dibattito sull’eutanasia e sulle scelte personali relative al fine vita. Si è così riaperto il duello/confronto mediatico tra schieramenti con vedute apparentemente opposte su quest’argomento, in difesa, a seconda delle circostanze e degli interpellati, della promozione e della tutela della vita, dei diritti, della libertà, della dignità, … Anche sui contenuti e sugli ambiti da normare voci e pareri si sono opposti e sovrapposti, creando spesso confusione sia a livello terminologico (DAT, testamento biologico, suicidio assistito, eutanasia, usati quasi come sinonimi), sia sui contenuti delle stesse proposte presentate e/o da presentare.
In alcune occasioni sono stati anche evocati i fantasmi di Hitler e del nazismo, richiami giustamente stigmatizzati nella loro portata provocatoria, ma, forse, liquidati “in toto” un po’ troppo semplicisticamente con un “non c’entrano nulla”, escludendoli, così, da ogni dibattito ritenuto serio e democratico. Personalmente ritengo, però, che tali richiami, bonificati dalla loro sterile e acritica strumentalizzazione polemica, rappresentino interrogativi centrali con cui, come il filosofo A. Badiou ricordava, è importante continuare a confrontarsi: “… consentitemi di porre una domanda, oggi provocatoria e addirittura proibita: qual era il pensiero dei nazisti? Che cosa pensavano i nazisti?” […] Fintanto che il pensiero nazista non è pensato, esso resta tra noi impensato, dunque indistruttibile”.
Uno spunto per provare ad affrontare questo difficile compito “critico”, potrebbe essere rappresentato dalla visione di una pellicola sull’eutanasia diffusa dalla propaganda nazista. Forse può apparire riduttivo utilizzare un film, per quanto significativo possa essere, per interrogarsi su come il tema dell’eutanasia fosse affrontato e gestito durante il nazismo. Potrebbe essere, inoltre, fuorviante, visto l’uso propagandistico e mirato a creare consenso che era fatto del cinema. Tuttavia credo che potrebbe rappresentare anche un’opportunità, poiché, oggi come allora, su alcune tematiche particolarmente sensibili, il cinema se da una parte contribuisce ad aprire e sollecitare attivamente un dibattito (esponendo punti di vista, proponendo interrogativi e, a volte, suggerendo soluzioni), dall’altra si confronta e prende spesso spunto da atteggiamenti e sensibilità già presenti e diffusi, in modo più o meno esplicito, nella società.
Il film che vorrei ricordare è “Ich klage an” (“Io accuso”). Uscì nelle sale nell’autunno del 1941, dopo l’interruzione di “Aktion T4” (avvenuta nel mese di agosto), la fase del programma di eutanasia nazista costata la vita a 70.000 persone con disabilità e/o con disturbi psichici, definite come “vite indegne”. L’interruzione di “Aktion T4” non fermò le uccisioni che proseguirono, prevalentemente in ambito ospedaliero, e la cifra complessiva delle vittime al termine della guerra sarà di circa 200.000 persone.
Il film fu girato con grande maestria su sollecitazione di Karl Brandt, medico responsabile del programma di eutanasia nazista, probabilmente per permettere la promulgazione di una normativa specifica e mettere a tacere le critiche che, nonostante il lavoro propagandistico fatto, erano ancora numerose. La trama si basava sul romanzo “Sendung und Gewissen” (“Missione e coscienza”), del medico e scrittore Helmut Hunger.
La storia è quella di un professore di patologia, Thomas Heyt, sposato con la giovane Anna, colpita da sclerosi laterale amiotrofica (SLA). La malattia è diagnosticata dal medico di famiglia, Lang, collega di Thomas e, in passato, corteggiatore di Anna. Lang è decisamente contrario all’eutanasia, e nel corso del film si prodiga per alleviare le sofferenze di Anna, il cui marito, Thomas, si dedica instancabilmente alla ricerca di una cura efficace per la malattia. Alla fine, esaurite tutte le possibilità, Thomas decide di aiutare la moglie a morire, nonostante la ferma opposizione del collega:
Anna: vorrei che fosse arrivata la fine.
Thomas: è la fine, Anna.
Anna: ti amo tanto, Thomas (lui piange)
Anna: vorrei poterti stringere la mano Thomas.
A questo punto la scena si sposta nel tribunale in cui Thomas è stato trascinato dal fratello della moglie, con l’accusa di omicidio. Nel corso del dibattimento si succedono diverse testimonianze tra cui particolarmente efficace appare quella del suo anziano maestro:
“Per la straordinaria moglie del mio collega la vita fisica e spirituale si era trasformata in un’agonia insopportabile, l'ho visto io stesso. A questo si è aggiunta la preoccupazione nel vedere il suo amatissimo marito soffrire profondamente a causa della sua malattia. Non poteva nemmeno liberarsi da sola dal dolore essendo paralizzata. Altrimenti l'avrebbe fatto lei stessa, perché era una donna determinata, piena di vita, intelligente e per amore del marito sarebbe stata capace di compiere un simile atto […] Per la legge come medico ha esagerato, ma lasciatemi esprimere la mia opinione personale. Un ordinamento giuridico che pretenda che un malato terminale debba soffrire sino alla morte senza che egli possa scegliere una fine caritatevole è un ordinamento contro natura e disumano”. 
Nell’attesa dell’ultima testimonianza, quella del dottor Lang, i giurati si confrontano sostenendo pareri diversi che, tuttavia, alla conclusione della discussione sembrano convergere nelle richieste di assoluzione dell’imputato e di modifica della normativa per legalizzare l'eutanasia, convinti, in particolare, dall’intervento dell'ex sindaco della città dove si svolge il dramma, che dice:
“[…] e per quanto riguarda coloro che desiderano morire, perché un tempo sono stati sani e ora non ce la fanno più, credo che lo Stato, che ci impone il dovere di morire, debba anche darci il diritto di morire”.
Il dottor Lang arriva in Tribunale dopo esser passato a visitare una bambina che aveva aiutato a nascere e sopravvivere, nonostante avesse diversi problemi di salute, e che ora versava in condizioni gravissime. Tale visita e l’incontro con i genitori della bambina lo turbano profondamente, e gli fanno cambiare atteggiamento sia rispetto all'eutanasia, sia nei confronti del collega, che assolve da ogni responsabilità per la morte della moglie. Nell’ultima scena tutta l’attenzione si concentra su Thomas, le cui dure parole, da cui è tratto il titolo del film, suonano come una condanna verso uno stato e a una società che non vogliono riconoscere alle persone il diritto di porre fine alle proprie sofferenze:
Thomas: Ora sono io che accuso! Accuso una legge che ostacola medici e giudici nel loro lavoro a servizio della gente. Io non voglio che il mio caso sia nascosto sotto un tappeto. Voglio un verdetto. Non importa quale. Servirà come segnale, come possibilità di cambiamento. Lo confesso. Ho liberato mia moglie dalle sue sofferenze, seguendo la sua volontà. La mia vita dipende dal vostro verdetto e anche le vite di tutti coloro che dovranno sopportare la stessa sorte di mia moglie. Ora esprimete il vostro giudizio.”
Il film fu visto da 18 milioni di persone e fu premiato alla Mostra internazionale di arte cinematografica di Venezia del 1941. Nel “Rapporto dal Reich”, stilato dal “Servizio di sicurezza del Reich” (SD), il 15/01/1942, relativo alla diffusione del film, si evidenziava come: “La maggioranza del popolo tedesco ha avuto quasi senza eccezioni (quelle delle Chiese in particolare, N.d.A.) una reazione favorevole; in base ai nostri rapporti riteniamo particolarmente significativi i seguenti punti:
1. Presupposto essenziale alla decisione di dichiarare un paziente incurabile viene considerato un consulto alla presenza del medico di famiglia.
2. Di tanto in tanto si solleva il problema se l’eutanasia vada applicata a tutti i casi, dato che vi sono i pazienti che anche con poco tempo da vivere davanti a sé sono spesso in grado di compiere un lavoro produttivo.
3. Ugualmente essenziale per procedere all’eutanasia è il consenso del paziente o, nel caso di malati di mente, il permesso dei parenti.
4. Regole severe vanno stabilite per prevenire gli abusi. In nessun caso la decisione può essere presa da una sola persona.
5. E’ opinione diffusa che solo un medico, a sua discrezione, possa praticare l’eutanasia.”
Il rapporto terminava evidenziando come: “[…] dalla massa di materiale disponibile emerge una generale approvazione della pratica dell’eutanasia, quando decisa da una commissione di più medici e con il consenso del malato incurabile e dei parenti. Il sentimento di approvazione generale trova la sua miglior espressione nelle parole pronunciate nel film dal Sindaco: lo Stato che ci impone il dovere di morire deve darci il diritto di morire”.
Credo possa essere utile provare a rivedere la pellicola (la cui proiezione fu vietata per molti anni dopo la guerra), e confrontarsi con prospettive e modi di pensare che potrebbero rivelarsi non troppo distanti dai nostri di oggi, pur in contesti storico-politici profondamente diversi. L’alternativa è di fare come molti “benpensanti” che, chiudendo preventivamente il dibattito su quanto accaduto durante il nazismo, rischiano di, come ricordato sempre da Badiou, “camuffare la segreta e profonda parentela tra il reale politico del nazismo e quello che, secondo loro, è l'innocenza democratica”. Alle granitiche certezze di chi afferma che la nostra società è ormai matura e che oggi quanto è capitato in passato non potrà più succedere, preferisco, quindi, anteporre i dubbi e gli interrogativi di Gunther Anders, secondo cui non si deve smettere di provare a immaginare l’impensabile non solo per tentare di evitare che in futuro si ripetano le atrocità naziste, ma anche per provare a dare una risposta ai problemi del nostro tempo che, spesso, “non nascono da voluttà o perfidia, da disonestà o licenziosità, e neppure dallo sfruttamento, bensì da un deficit d’immaginazione”.
Se provo ad immaginarmi qualcosa nelle settimane in cui molti parlamentari parlano di garantire un fine vita dignitoso, ma pochi sembrano indignarsi di fronte alla notizia dei tagli previsti al fondo nazionale per le politiche sociali ed a quello per le non autosufficienze (fondi che, seppur minimi, dovrebbero contribuire a garantire una vita dignitosa a molte persone con disabilità), credo in primo luogo di dover rilevare un certo grado di preoccupante ipocrisia nell’attuale dibattito politico, ed in secondo luogo di dover prendere in seria considerazione le preoccupazioni di Lorenzo Moscon, persona con grave disabilità, che in una lettera/appello recentemente inviata ai nostri parlamentari, dice: “[…] nella mia esperienza ospedaliera, che si compone di ben sei interventi chirurgici subiti, ho sperimentato quanto sia indifeso, impotente e vulnerabile un malato in un letto d’ospedale. E non vedo per quale motivo i medici, viste le difficoltà economiche in cui versa il settore sanitario nel nostro Paese, la pressione sociale e quella che ricevono dalle strutture sanitarie stesse, debbano essere considerati esenti dalla tentazione di manipolare i pazienti, spingendoli a chiedere l’eutanasia.”
Preoccupazioni che ricordano molto da vicino quelle espresse dalla dott.ssa Alice Ricciardi von Platen, che nel corso di un convegno, svoltosi a Bolzano nel 1995, ricordava come “prevalga ancora oggi una concezione puramente scientifica del mondo e dell’uomo, che paragona l’uomo ad una macchina”, evidenziando come “di fronte agli enormi costi del sistema sanitario, i valori economici balzano nuovamente e pericolosamente (poiché spesso espressi senza alcuna ponderazione) in primo piano […] L’uomo comune o il professionista, saprà opporsi e/o protestare se si trovasse di nuovo di fronte alle pretese umanamente inaccettabili di uno Stato suffragate dal mondo scientifico”? A. R. von Platen era un membro della ‘Commissione di Osservatori’ inviata dall’Ordine dei medici della Germania Occidentale per il Processo dei medici di Norimberga, iniziato il 9 dicembre 1946 e terminato il 19 luglio 1947, nell’ambito del quale furono giudicati i crimini legati al cosiddetto “Programma eutanasia”. Conosceva bene ciò di cui parlava.
Riguardare “Io accuso”, porsi alcune domande, confrontare le nostre risposte di oggi con quelle della maggioranza dei tedeschi durante il nazismo, analizzare le strategie propagandistiche del "III Reich", interrogarsi su quali passaggi e perché è (o non è) necessario indignarsi, evitando facili strumentalizzazioni, potrebbe essere un esercizio utile ad accrescere il livello di consapevolezza e responsabilità complessivi nell’affrontare l'odierno dibattito sull’eutanasia.




Per approfondimenti: Aly G., Zavorre, 2017, Einaudi; Anders G., Discesa all’ade, 1997, Bollati Boringhieri; Badiou A., Il secolo, 2006, Feltrinelli; Burleigh M., Wippermann W., Lo stato razziale. Germania 1933-1945, 1992, Rizzoli; Evans R. J., Il Terzo Reich in guerra, 2014, Mondadori;  Friedlander H. Le origini del genocidio nazista. Dall’eutanasia alla soluzione finale, 1996, Editori Riuniti; Gellately R., Il popolo di Hitler, 2002, Longanesi; Lifton R. J., I medici nazisti, 2002, Rizzoli; Ricciardi von Platen A., Il nazismo e l’eutanasia dei malati di mente, 2000, Le Lettere.