“Questa
raccolta di documenti fu pubblicata per la prima volta 10 anni fa. Sono
testimonianze che erano e restano spaventose. Il tempo non potrà mai attenuarne
l’orrore”[1]. Con queste parole inizia
la seconda edizione del testo in cui Alexander Mitscherlich, con Fred Mielke,
si propose di descrivere, analizzare e testimoniare, quanto accadde nel corso
del processo dei medici nazisti, iniziato a Norimberga il 9 dicembre 1946 e
terminato il 19 luglio 1947. Tra i crimini contestati ai 23 imputati, di cui 20
erano medici, vi erano anche quelli legati al cosiddetto “Programma di
eutanasia”, in cui, tra il 1939 e il 1945, trovarono la morte circa 200.000
persone con disabilità o con disturbi psichici (oltre 70.000 nell’ambito della
sola Aktion T4). Tutti gli imputati si dichiararono non colpevoli. Al termine
del processo sette di loro furono assolti, sette furono condannati a morte, gli
altri a pene detentive di diversa durata.
Alexander
Mitscherlich era il Presidente della ‘Commissione di Osservatori’ inviata
dall’Ordine dei medici della Germania Occidentale per il Processo. Della
Commissione facevano parte anche il dottor Fred Mielke e la Psichiatra Alice
Ricciardi von Platen. Nessuno di loro aveva ancora raggiunto i 40 anni e,
probabilmente, ci si aspettava da parte loro un diplomatico silenzio nello
stilare il resoconto delle vicende processuali. Silenzio che, presumibilmente, avrebbe
aperto loro le porte verso una brillante carriera sanitaria. I tre incaricati decisero,
invece, non solo di raccontare fedelmente la cronaca del processo, ma di
contribuire attivamente a quel grande percorso di chiarimento delle
responsabilità che nel dopoguerra ritenevano “avrebbe dovuto esserci nel nostro
paese”[2], ma che, secondo quanto
amaramente dovevano costatare alcuni anni dopo, non ci fu.
A
70 anni di distanza dalla conclusione del processo, e in occasione del giorno
della memoria, credo valga la pena ricordare quanto scrissero i diversi
componenti della Commissione medica, per provare a capire le ragioni di questa
rimozione e valutare se, come io credo, abbiano ancora oggi qualcosa, o molto,
da insegnarci.
Alice
Ricciardi von Platen fu la prima a scrivere nel 1948 il libro “Il nazismo e
l’eutanasia dei malati di mente”, i suoi colleghi, un anno dopo, documentarono
il loro lavoro nel testo “Medicina disumana. Documenti del “Processo dei
medici” di Norimberga” (testo preceduto nel 1947 da un breve opuscolo
documentativo). Entrambi i libri passarono non solo inosservati, ma fu come non
fossero mai apparsi. La loro sorte “è avvolta ancora oggi nell’oscurità”[3] e il loro contenuto, “fu
rimosso dalle nostre coscienze”[4]. L’analisi che
Mitscherlich offre di questa rimozione nell’introduzione alla seconda edizione del
suo lavoro è la seguente: “E qui è opportuno soffermarsi un po’ sulla sorte (finora
assai singolare) di questo libro e dell’opuscolo che lo precedette, “Das Diktat
der Menschenverachtung”. […] Uscito l’opuscolo, cominciarono a giungerci
proteste di alcuni studiosi il cui nome figurava in quei documenti. […] Ma
nessuno di coloro che avevano lavorato nell’apparato hitleriano inserì nella
sua difesa la semplice frase: Mi dispiace.
Qui si profilava già quello che si potrebbe definire l’isolamento dei
colpevoli, cioè il riversare tutte le colpe sulle spalle dei criminali
patologici, altro aspetto di quell’ostinazione a non voler vedere e capire che
a mio avviso, se continuerà, segnerà la fine della nostra esistenza storica”[5].
Porre
l’accento su una mancanza, su un “Mi dispiace”, credo che non solo sia centrale
nell’analisi di quanto accaduto, ma sia soprattutto indicativo della
persistenza, anche in seguito, di un certo atteggiamento che, secondo l’autore,
continuava a non riconoscere nelle vittime persone di egual valore. E’
interessante notare, inoltre, come questo processo di “patologizzazione” di alcuni
per salvare tutti gli altri, questo riversare le colpe su pochi “colpevoli”, non
è da Mitscherlich accettato in maniera esclusiva, bensì solo in relazione ad
una redistribuzione della responsabilità, diretta e/o indiretta, nell’ambito di
una ben più ampia platea istituzionale: “È innegabile che la dittatura di
Hitler fu criminale, tanto al vertice quanto al gradino più basso, quello degli
aguzzini, ignoranti o istruiti che fossero. Di un’oscurità sconcertante è la
funzione svolta dal grande strato intermedio; ma è chiaro che senza la
complicità di questo, senza la sua tolleranza e indifferenza, i progetti
delittuosi non avrebbero mai potuto tradursi in azione. […] Dei circa 90.000
medici che esercitavano in Germania in quell’epoca, circa 350 si macchiarono di
crimini. In sé, la cifra è alta, soprattutto se si pensa alle dimensioni dei
delitti; ma in rapporto a tutto il corpo dei medici resta solo una piccola
frazione: circa un trecentesimo. […] Ma il nocciolo della questione è un altro.
Se 350 furono coloro che commisero direttamente dei crimini, c’era tutto un
apparato che li mise in condizione ed offrì loro la possibilità di degenerare.
Essi non uccisero pazienti che avevano in cura. […] L’analisi del caso
patologico particolare è necessaria, naturalmente, ma non sviscera il rapporto
tra causa ed effetto, non sviscera la catena di motivi che rende possibile
simili delitti”[6].
Mitscherlich,
quando ormai la guerra è terminata da 15 anni, teme che non sia stato ancora colto
l’insegnamento e il monito legato a tali crimini. L’averli relegati in un
passato ormai superato, attribuendo tutte le colpe ai pochi condannati e
ritenendosi quasi immunizzati dal ripetersi di tali avvenimenti, non è
accettato dall’autore: “Ché questa documentazione non riguarda storia morta, ma
avvenimenti verificatisi nei nostri tempi. […] E perciò non basta aver paura
che certe cose possano ripetersi; bisogna anche capire che quelle cose sono
state fatte da uomini che, quando vennero al mondo, non erano mostri, ma spesso
in maniera del tutto normale, grazie a doti normali, arrivarono a farsi
un’istruzione e ad occupare posti importanti nella società, prima di
narcotizzare e paralizzare le facoltà umane che avevano acquisito e di
risprofondare nelle bassezze degli istinti bestiali distruttivi. […] Ma ci è
parso necessario far forza al nostro amor proprio, cioè alla stima che
cerchiamo di avere di noi stessi, e tentare di individuare il rapporto che c’è
tra questi fenomeni di abbrutimento di paralisi della coscienza e la nostra
“società civile”. Alla base di queste azioni c’è tutta una gamma di
atteggiamenti che vanno dalla perversione congenita e dalle peggiori forme di
degenerazione alla “tolleranza” servile, quella forma minore disumanità che da
un lato è caratterizzata dall’egoismo dell’istinto di conservazione e dalla
vile sopravvalutazione di superiori, e dall’altro da una capacità enorme, che
sconfina nel virtuosismo, di tacitare la voce della coscienza”[7].
Mitscherlich
apparteneva, come i suoi colleghi, al mondo sanitario e lo conosceva
dall'interno. Era, inoltre, un membro rispettato di quella “società civile” che
non temeva di chiamare in causa. L’aver riconosciuto la preoccupante attualità
di alcuni degli aspetti più “comuni” e “normali” degli atteggiamenti e
comportamenti, che furono sfondo e, soprattutto, presupposto del “Progetto
eutanasia”, rappresentava per lui un potenziale pericolo di riproposta, magari
in modi e forme diversi, di tali crimini e violenze.
Preoccupazioni
condivise anche dall’altro membro della Commissione, Alice Ricciardi von Platen
che, con uno sguardo forse maggiormente rivolto al futuro, nell’introduzione
del suo testo ammoniva: “La dimensione raggiunta dall’Eutanasia negli istituti tedeschi dimostra come, una volta
intrapresa la strada dell’annientamento delle cosiddette vite indegne, non ci siano più limiti: sostenuti da considerazioni
di carattere ideologico e materiale si annienta la vita anormale sino al punto in cui non si è annientata la vita stessa. […]
Nell’epoca dell’interesse collettivo, evidentemente, il diritto del singolo
alla tutela statale non è più un fatto scontato. Ma se le tendenze distruttive
dovessero avere il sopravvento, l’interesse collettivo si trasformerebbe in minaccia
di sterminio nei confronti degli individui malati ed indifesi. Finchè l’umanità
vivrà, solo una parte degli individui sarà conforme alla norma dell’essere
umano medio”[8].
Questi concetti sono successivamente ripresi e ampliati dall’autrice: “Come i malati
di mente sotto il nazionalsocialismo, attualmente gli stranieri vengono
considerati alla stregua di parassiti, pura zavorra per la nostra società”[9].
Si
potrebbe pensare che l’enormità dell’accaduto e la “patologizzazione” degli
autori dei crimini siano sufficienti per metterci al riparo dal ripetersi di
simili derive criminali. Mitscherlich, Mielke, Ricciardi von Platen, tuttavia,
non la pensavano così. Erano stati testimoni del processo, del clima in cui si
era svolto e degli atteggiamenti con cui i loro resoconti furono accolti.
Alcuni loro ammonimenti mantengono intatta tutta la loro attualità, e portano
in primo piano la necessità di continuare a studiare, a ricordare quanto
accaduto, cercando, al contempo, di rileggerlo, di contestualizzarlo nella
nostra società odierna. In particolare provando a chiedersi se sia stato
definitivamente superata la logica di un bio-potere che, secondo M. Foucault, ha
governato le moderne società fondandosi su un’idea razzista per cui “La morte
dell’altro, la morte della cattiva razza, della razza inferiore (o del
degenerato, o dell’anormale), è ciò che renderà la vita in generale più sana;
più sana e più pura”[10]. Concetti che si ritiene
essere lontani dalla nostra attuale cultura e civiltà, e che inducono a
derubricare la morte dell’altro a caso fortuito o inevitabile, a eccezione
legata, per lo più, a sofferenze personali e/o comportamenti accidentali. L’analisi
di Foucault, però, prosegue ulteriormente: “Sia ben chiaro che quando parlo di
messa a morte non intendo semplicemente l'uccisione diretta, ma anche tutto ciò
che può essere morte indiretta: il fatto di esporre alla morte o di
moltiplicare per certuni il rischio di morte, o più semplicemente la morte
politica, l'espulsione, il rigetto”[11]. Intesa in questi termini
la morte indiretta è stata non solo presupposto e precondizione dell’attuazione
del programma eutanasia, preceduto da anni di ostracismo, tagli di risorse,
violenze e stigmatizzazioni delle persone con disabilità o con disturbi psichici,
ma è anche qualcosa che interroga l’attuale “società civile”.
[1] MITSCHERLICH A., MIELKE F., Medicina disumana. Documenti del “Processo
dei medici” di Norimberga, ed. it. 1967 (I ed. 1949, II ed. 1960), Feltinelli
Editore, Milano, p. 5
[3] Frei N., Carriere. Le elite di Hitler dopo il 1945, 2003, Bollati
Boringhieri, Torino, p. 22.
[4] RICCIADI VON PLATEN A., Il nazismo e l’eutanasia dei malati di mente,
ed. it. 2000 (I ed. 1948, II ed. 1993), Le Lettere Editore, Firenze, p. 5
[5] MITSCHERLICH A., MIELKE F., Medicina disumana. cit., p. 14
[6] Ibidem, p. 13
[7] Ibidem, p. 6
[8] RICCIADI VON PLATEN A., Il nazismo e l’eutanasia dei malati di
mente, cit. pp. 10-11
[9] Ibidem, p. 14.
[10] M.
FOUCAULT, Bisogna difendere la società,
Milano, Feltrinelli Editore, 2009, pp. 219-222
[11] Ivi.
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