Nel testo recentemente pubblicato “Giustizia
e carceri secondo Papa Francesco”, viene ripercorso e riletto da 21 esperti di
diritto, il discorso tenuto nel 2014 dal Papa all'associazione internazionale
del diritto penale. Tuttavia alle molte luci presentate pare non accompagnarsi
alcuna ombra, neppure quella relativa all’aumento della durata massima delle
pene detentive, portata a 35 anni.
Nel
mese di novembre 2016 è stato pubblicato dalla casa editrice Jaca Book il libro
"Giustizia e carceri secondo Papa Francesco", curato dal presidente
dell’associazione “Antigone” Patrizio Gonnella e da Marco Ruotolo, ordinario di
Diritto costituzionale presso l’Università Roma Tre.
Il testo raccoglie i commenti di giudici, avvocati, legislatori, medici, sociologi, filosofi del diritto e di un ex detenuto, al discorso che “Papa Francesco” ha tenuto il 23 ottobre 2014 all’Associazione internazionale di diritto penale, presentato con le seguenti parole: “Un discorso potente e radicale quello di papa Francesco sulla giustizia e sulle carceri. Indignata è la sua critica alla giustizia, definita selettiva, populista con tendenze razziste. Il carcere viene definito luogo di produzione di dolore. La tortura è un plus di sofferenza, l’ergastolo una pena di morte nascosta. Papa Francesco non si accontenta di offrire una prospettiva di salvezza, come spesso la Chiesa si è limitata a fare. Non si affida alla retorica della rieducazione del reo. Il suo è un manifesto contro le derive securitarie degli ultimi decenni e contro un diritto penale che tratta le persone come nemici. La giustizia per papa Francesco deve essere sempre una giustizia pro homine”.
Il testo raccoglie i commenti di giudici, avvocati, legislatori, medici, sociologi, filosofi del diritto e di un ex detenuto, al discorso che “Papa Francesco” ha tenuto il 23 ottobre 2014 all’Associazione internazionale di diritto penale, presentato con le seguenti parole: “Un discorso potente e radicale quello di papa Francesco sulla giustizia e sulle carceri. Indignata è la sua critica alla giustizia, definita selettiva, populista con tendenze razziste. Il carcere viene definito luogo di produzione di dolore. La tortura è un plus di sofferenza, l’ergastolo una pena di morte nascosta. Papa Francesco non si accontenta di offrire una prospettiva di salvezza, come spesso la Chiesa si è limitata a fare. Non si affida alla retorica della rieducazione del reo. Il suo è un manifesto contro le derive securitarie degli ultimi decenni e contro un diritto penale che tratta le persone come nemici. La giustizia per papa Francesco deve essere sempre una giustizia pro homine”.
Leggendo il testo si possono rilevare diversi riferimenti alla legge n° IX dell’11luglio 2013 “Recante modifiche al
codice penale e al codice di procedura penale” della Città del Vaticano, e
fortemente voluta da “Papa Francesco”. In particolare l’abolizione della pena
dell’ergastolo (“pena di morte nascosta”) contenuta nella nuova normativa penale
Vaticana è, in diverse occasioni, citata come esempio e modello di questo nuovo
corso, ben descritto nel manifesto papale e caratterizzato dal contrasto al
“populismo penale” e dal contenimento delle tendenze alla vendetta e delle
“derive securitarie degli ultimi decenni”. Paradigmatica in tal senso la
conclusione dell’ultimo contributo del libro, a cura di M. Palma: “…la
battaglia papale contro quel populismo amplificatore del carcere non è
battaglia per l’oblio, bensì battaglia per la memoria e monito sul nostro agire
quotidiano”.
Pur ritenendo
condivisibile tutto ciò, devo, se non vado errato, rilevare una lacuna che,
secondo me, avrebbe richiesto un ulteriore e più approfondito sforzo di analisi
critica.
All’articolo
31 delle modifiche al codice penale, approvate da “Papa Francesco” il 1
luglio 2013, si prevede la sostituzione dell’ergastolo con la pena della
reclusione da 30 a 35 anni (con un aumento di 10 anni rispetto alla precedente
durata massima della detenzione fissata in 25 anni).
Ad oggi,
poche sono state le riflessioni sviluppate su quest’aspetto che, tuttavia, mi
pare degno di attenzione soprattutto per la sua rilevanza nell’evidenziare
alcune ambiguità di fondo dell’ordinamento penale vaticano. Vale la pena citare
in tal senso le considerazioni di Luciano Eusebi, professore ordinario di
diritto penale presso l’Università sacro cuore di Milano e tra i coautori del testo
analizzato che, nel 2014, scriveva: “risulta paradossale come da una parte, il
magistero della Chiesa nel suo livello più alto abbia affermato, con il
messaggio di Papa Giovanni Paolo II per il giubileo nelle carceri, l’esigenza
di superare la centralità assegnata alla pena detentiva, stigmatizzandone i
molteplici effetti negativi, mentre, dall’altra parte, si sia successivamente
proceduto a introdurre reati vaticani i quali prevedono in via ordinaria la
reclusione e, sovente, massimi edittali di quest’ultima estremamente elevati,
perlopiù ripresi da corrispondenti fattispecie penali italiane: senza, dunque,
alcun tentativo di interpretazione in concreto del monito magisteriale. E,
infatti, non può di certo ritenersi sufficiente, da questo punto di vista, l’abolizione
della pena dell’ergastolo “sostituita con la pena della reclusione da 30 a 35
anni”, ai sensi dell’articolo 31, co. 1, della legge 11 luglio 2013, n. IX. […]
Si tratta, sin qui, di un’occasione mancata, soprattutto dal punto di vista
culturale. […] L’assenza, pertanto, di una progettazione autonoma, nella legislazione
vaticana, delle sanzioni penali, che si affranchi dalla centralità del ricorso
al carcere e che presupponga una specifica riflessione morale sulle strategie
preventive utilizzabili, compromette in modo non irrilevante l’incidenza delle
esortazioni provenienti dai pontefici e dagli episcopati alla riforma dei
sistemi penali: specie in una fase nella quale si è transitati dal sussistere
di un diritto penale Vaticano come sistema proveniente dal passato che deve
esistere, in ossequio alla natura dell’ente di cui è espressione, ma con un
ruolo del tutto secondario, a una normazione penale per certi aspetti
frenetica, con cui lo Stato Vaticano sembra ricercare una sorta di nuova
identità nell’ambito internazionale e di una nuova credibilità delle sue istituzioni
giuridiche. Rimanendo, peraltro, nel vago che cosa davvero accadrebbe ove una
delle penne detentive di lunga durata oggi comminate - anche in rapporto ai
reati moderni dei quali non è inverosimile, per quanto improbabile, il realizzarsi
- venisse effettivamente inflitta”.[1]
Se è
particolare che di queste acute riflessioni del prof Eusebi non vi sia traccia
nel libro, lo è ancor più il fatto che un altro coautore, il prof. Luigi Ferrajoli,
non abbia ritenuto di doversi riferire a quest’aspetto, che va in una direzione
diametralmente opposta a quelle da lui sostenute e ben rappresentate dall’affermazione
che “una pena superiore ai 20 anni è una pena disumana, contraria al principio,
al dovere del trattamento umano […] e contraria alla dignità della persona e ai
suoi diritti fondamentali, […]”.[2] Sempre il prof. Ferrajoli,
alcuni anni prima, nel suo testo del 1989 “Diritto e ragione”, scriveva: “Quale
può essere in una prospettiva di minimizzazione della pena la durata massima
della pena carceraria? […] Io penso che la durata massima della pena detentiva,
qualunque sia il delitto commesso, potrebbe ben essere ridotta 10 anni nei
tempi brevi e magari un tempo ancor minore nei tempi medi; e che un limite
massimo - poniamo 10 anni - dovrebbe essere sancito con una norma
costituzionale. […] L’obiettivo dell’immediata riduzione del limite massimo
della pena a 10 anni di reclusione, d’altra parte, non è affatto irrealistico. Già
oggi in Italia, dopo la recente legge dell’86, la pena dell’ergastolo e di
fatto scomparsa, essendo possibile, dopo 15 anni, commutarla nella misura della
semilibertà e poco dopo in quella della liberazione condizionale; e lo stesso
può dirsi la maggior parte dei paesi europei, dove parimenti sono stati
introdotti, negli scorsi decenni, vari articolati sistemi di misure
alternative. […] Ed è chiaro che una volta ammesso che in base alla legge dell’ergastolo
può essere sistematicamente anche se discrezionalmente ridotto a 15 anni ed
altre pene detentive dimezzate, non sarà difficile ammettere l’opportunità che
la legge passi in via generale, nella stessa misura in cui sono oggi riducibili
caso per caso, i limiti massimi di tutte le pene di detentive. A meno che il
vero ostacolo non sia tanto il timore di un’eccessiva brevità della pena,
quanto piuttosto la volontà di non rinunciare proprio a quelle finalità di
correzione del reo e di governo del carcere che l’attuale sistema, anche a
costo di una alterazione dei lineamenti garantisti della pena, persegue con i
complicati meccanismi potestà attivi apprestati per la concessione delle misure
alternative”[3].
Credo
che nel proporre un testo intitolato “Giustizia e carceri secondo Papa
Francesco”, per completezza d’informazione sarebbe stato opportuno presentare accanto
alle “luci”, anche qualche “ombra”, magari analizzando alcune ambiguità di
fondo e proponendo una riflessione sulla possibile permanenza di una “volontà
di non rinunciare proprio a quelle finalità di correzione del reo e di governo
del carcere […]”, che, tuttavia, deve essere calata in un contesto storico e
pastorale caratterizzato da un’attività di “normazione penale per certi aspetti
frenetica, con cui lo Stato Vaticano sembra ricercare una sorta di nuova
identità nell’ambito internazionale e di una nuova credibilità delle sue istituzioni
giuridiche”.
Concludo
con una riflessione di Salvemini che, seppur relativa all’amnistia, mi pare
comunque inerente all’argomento e indicativa di un certo modo di intendere e
affrontare alcune tematiche: “Finora le amnistie erano motivate da ricorrenze
di carattere politico. Da ora in poi, a quel che pare, avremo anche le amnistie
dettate da ragioni religiose. La prima di queste è l'amnistia per l'Anno Santo.
[...] In occasione dell'Anno Santo il papa condona i peccati. Conformandosi
all'esempio del papa i Governi condoneranno i delitti. E il merito ne sarà dato
al papa. Bella, immortal, benefica fede,
ai trionfi avvezza, scrivi ancor questo.
Giuridicamente
il condono dei delitti sarà associato al condono per i peccati. Ma di fatto
l'uno dipenderà dall'altro. Quando i popoli avessero presa l'abitudine a quella
dipendenza, la dipendenza di fatto diventerebbe anche dipendenza giuridica. Non
si sa mai. Bisogna aprire le vie alla Provvidenza. La Chiesa è patiens quia aeterna".[4]
[1] Eusebi L., 2014, La Chiesa
e il problema della pena, Editrice La Scuola, Milano, pp. 107-110
[2] Ferrajoli L., 2008, E’
ancora necessario il carcere? http://www.europeanrights.eu/index.php?funzione=S&op=5&id=105
[3] Ferrajoli L., 1989, Diritto e Ragione, Editori Laterza,
Roma, pp. 413-414
[4] Salvemini G., Anno Santo e Amnistia, da "Il
Ponte", novembre 1949