L’istituzionalizzazione e la violenza sulle persone (con disabilità, con disturbo mentale, anziane, …)

Negli ultimi mesi sono stati oggetto delle cronache diversi episodi legati all’’istituzionalizzazione di persone con disabilità (ma anche di persone con disturbi mentali, anziane, …), in strutture residenziali che si sono rivelate essere non solo luoghi di segregazione e privazione della libertà, ma anche teatro di ingiustificabili violenze e prevaricazioni. Uno stillicidio preoccupante di inaccettabili crimini: “Tavernerio (Como), bambini disabili maltrattati: indagati 14 dipendenti della struttura”; “Maltrattamenti sui disabili, a processo 12 operatori di una struttura di Cuneo”; “Anziani e disabili picchiati in Rsa, 12 arresti nel siracusano”; “Luserna San Giovanni (Torino): Violenza sessuale e maltrattamenti su persone disabili in comunità”.

Trasversali le qualifiche ed i ruoli degli arrestati ed indagati, Educatori, Psicoterapeuti, OSS, Infermieri, Coordinatori, etc. . I diversi contesti di lavoro si presentavano (e così apparivano nei rispettivi territori), come fondati e condotti sulla base di “modelli culturali, relazionali e operativi” aperti e rispettosi dei diritti umani, come risulta anche da alcuni stralci delle Carte dei Servizi di due strutture con diverse similitudini: “Operiamo nel rispetto di una serie di diritti fondamentali degli utenti, […] ogni paziente è visto come una persona in grado di esprimere i propri bisogni e desideri, e ha diritto a trovare negli operatori l’orientamento a un unico obiettivo: migliorare il suo stato di salute psicofisico e la sua qualità della vita” (Tavernerio); “La Comunità si propone di essere quel “contesto” in cui si concretizza per il disabile una nuova dimensione di vita […] Qualsiasi intervento è attuato a partire da un modello comunitario di presa in carico globale della persona, che prende avvio da un’analisi dettagliata dei suoi bisogni, abilità, potenzialità ed aspirazioni e conduce all’individuazione di una serie di obiettivi specifici attorno ai quali costruire il Progetto Terapeutico Riabilitativo Individualizzato” (Luserna San Giovanni).

Da un’analisi un po’ più approfondita di quanto successo in quest’ultima struttura, quella di Luserna San Giovanni, emergono elementi significativi che potrebbero essere utili per ampliare la riflessione.

Si può constatare, intanto, come il “modello di presa in carico globale della persona” e di “progettazione individualizzata”, si declini all’interno di un contesto (“una nuova realtà di vita”), costituito da due nuclei con 20 persone ciascuno (40 persone nello stesso stabile), comunicanti e collocati sui due piani di un’unica struttura storica (appartenuta all’Ordine Mauriziano), accreditata e con diverse attività ed aperture sul territorio, e premiata anche ad un festival del cinema del terzo settore. In una delle due comunità dello stabile, i costanti atteggiamenti “crudeli, disumani e umilianti” del personale hanno creato un contesto che il GIP descrive così: “Gli indagati (7 OSS e una psicoterapeuta) si mostrano soddisfatti per essere riusciti – grazie a vessazioni e violenze precedenti – a creare un clima di terrore che consente loro di sottomettere e neutralizzare gli ospiti”.

Alcune dichiarazioni di genitori rilasciate dopo la denuncia delle violenze, aiutano a ricostruire ulteriormente il contesto più generale. Una madre, contattata dai giornali, ha segnalato come più volte avesse avuto dei dubbi su quanto accadeva nella struttura, anche in relazione ad alcuni lividi ed ai relativi racconti del figlio, ma che era sempre stata rassicurata con spiegazioni “indiscutibili” da parte degli operatori, supportate e suffragate dall’intervento della psicoterapeuta che, manipolando ulteriormente la situazione, la invitava a non dare troppo credito ai racconti del figlio, in quanto persona con disabilità. Anche un padre riportava di aver spostato il figlio da quella struttura in cui aveva ricevuto più volte pressioni e ricatti, inclusa la minaccia di dimissioni. Coraggiosamente, inoltre, sottolineava un altro aspetto rilevante che riguarda tante famiglie “le quali, soprattutto per paura di essere ricattate, non denunciano in modo deciso gli abusi, nonostante i segni di maltrattamenti siano spesso visibili sul corpo dei loro figli. C’è un atteggiamento di passività, che a volte rasenta la complicità. Alcuni familiari, addirittura, arrivano a criticare chi trova il coraggio di parlare, salvo poi indignarsi pubblicamente sui social”.

Un ulteriore elemento particolarmente significativo sono le intercettazioni di operatori della struttura. Alcuni commenti mostrano nessuno scrupolo e soddisfazione “per essere riusciti – grazie a vessazioni e volenze precedenti – a creare un clima di terrore che consente loro di sottomettere e neutralizzare gli ospiti”. Altri commenti rivelano un’amara, ma sterile, consapevolezza di quanto si stava facendo: “Basaglia si sarebbe rivoltato nella tomba se ci avesse visto […] il 90% di noi doveva finire in galera e ci dovevano crocifiggere”.  Queste ultime parole raccontano anche come pur essendo ben chiara ad alcuni operatori la gravità delle violenze e dei reati che si stavano compiendo, o cui si stava assistendo, e delle possibili conseguenze degli stessi, questo non era sufficiente per intervenire o denunciare, quasi fossero necessari o ineluttabili. In alcuni casi era la stessa direzione, come rilevato dal GIP, che silenziava le segnalazioni interne, richiedendo di allinearsi al modus operandi, come pare essere confermato anche dal fatto che in alcune linee difensive si è tentato, nuovamente, di far ricadere sulle persone con disabilità oggetto di violenze le responsabilità delle stesse, in quanto sarebbero state adottate nel loro interesse secondo protocolli operativi formali.

In ultimo colpisce (ma non stupisce più di tanto) il fatto che le violenze ed il clima di terrore, siano state denunciate da un magazziniere, una figura esterna ai servizi ed ai professionisti della cura, pubblici e privati, che quotidianamente attraversavano quei luoghi.

Era impossibile non rendersi conto o non sapere cosa stesse accadendo, nonostante le prese di distanze e le dichiarazioni di stupore da parte della dirigenza. Quanto accaduto non può essere liquidato con la speranza di “aver ripulito l’ambiente” con l’arresto e l’allontanamento dei responsabili.

Il sociologo Zimbardo nel testo “L’effetto Lucifero”, sottolinea come spesso si definisce “il comportamento aberrante, illegale o immorale di individui che esercitano professioni di pubblico servizio, una cattiva azione di alcune mele marce, implicando con ciò che si tratti di una rara eccezione e che queste persone vadano collocate da una parte della frontiera stagna tra male e bene, mentre la maggioranza costituita da mele buone sta dall’altra. Ma chi fa questa ripartizione? Di solito, sono i guardiani del sistema, che vogliono isolare il problema per stornare l’attenzione e la colpa da chi sta al vertice e può essere responsabile di aver creato condizioni di lavoro insostenibili o di non avere esercitato una sorveglianza o un controllo. Anche in questo caso, l’impostazione disposizionale della mela marcia ignora il cesto di mele e il suo impatto situazionale potenzialmente capace di corrompere chi vi sta dentro”. Secondo Zimbardo ciò non vuol dire negare la responsabilità né la colpevolezza dei singoli autori di violenza ma, piuttosto, vuol dire acquisire consapevolezza che “cattivi sistemi creano cattive situazioni, che creano mele marce, che creano cattivi comportamenti, anche in brave (o presunte tali, nda) persone” (senza dimenticare, però, che questa non è una deriva inevitabile: si può sempre dire di No).

Il tema della violenza sulle persone vulnerabili istituzionalizzate si poggia su intrecci, in parte sommersi o latenti, di comportamenti, di significati, di stigmatizzazioni, di esclusioni, di ricatti, di bisogni, di interessi (economici ma non solo), di ipocrisie, di parole e di silenzi. È evidente come vi siano vari livelli di responsabilità inestricabilmente legati ed interdipendenti tra loro: quello personale/professionale, quello organizzativo/aziendale, ma anche quello legato al contesto socio-culturale ed economico.

Nell’affrontare questo tema bisognerebbe aver sempre presente che alcune derive, che si tratti di gravi violenze o di più sottili forme di maltrattamento istituzionale e negazione dei diritti, sono intrinsecamente legate alla stessa dimensione dell’istituzionalizzazione, anche quando si parla di strutture fondate e condotte sulla base di “modelli culturali, relazionali e operativi aperti e rispettosi dei diritti umani”, come testimoniano i fatti che riguardano realtà come quella di Luserna San Giovanni e di Tavernerio a Como. Affermarlo non è un “maldestro tentativo di generalizzata criminalizzazione”, ma una responsabile presa di coscienza del fatto che quelli che prevedono ancora l’istituzionalizzazione delle persone vulnerabili sono “cattivi sistemi, che creano cattive situazioni, che creano mele marce, che creano cattivi comportamenti, anche in brave persone”.

“Mai più Istituti” era il nome dell’associazione del mio amico Roberto Tarditi, che nella sua personale conquista di una vita indipendente tra gli anni settanta ed ottanta non aveva mai dimenticato quello che aveva vissuto. Oggi le strutture sono cambiate da quegli anni, ma le dinamiche istituzionali, come ricordava anche Basaglia, sopravvivono ai luoghi e tendono a riorganizzarsi riadattandosi ai nuovi contesti. Credo, quindi, che oggi Roberto sarebbe in prima fila nella lotta per la radicale garanzia del Diritto alla vita indipendente, previsto dalla Convenzione ONU, e per la fine di ogni forma di istituzionalizzazione, spesso presupposto di violenze e maltrattamenti ed incompatibile con questo stesso diritto.

Domenico Massano, Pedagogista



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