“Potete chiamarle come vi pare, comunità terapeutiche, psichiatriche o in qualsiasi altro modo, tanto la sostanza non cambia: noi restiamo sempre i matti che voi curate e tenete in moderni manicomietti” (una voce da una comunità terapeutica).
Nell’attraversare
alcune comunità terapeutiche e nell’incontrare, oltre alle tante persone che vi
sono inserite, anche le molte altre che vi operano con professionalità e ruoli
diversi (educatori, psicologi, coordinatori, psichiatri, infermieri, oss, …), è
abbastanza consueto riscontrare in queste ultime la convinzione, spesso
avvalorata da diversa letteratura scientifica, che il loro contesto lavorativo
rappresenti non solo un tassello fondamentale del sistema dei servizi per la salute
mentale, ma anche un’evidente evoluzione ed un qualcosa di completamente
diverso rispetto alla dimensione manicomiale, definitivamente e “totalmente”
superata. Cosa probabilmente vera per diversi aspetti. Tuttavia questo generico
riferimento al manicomio, prevalentemente risolto nei suoi aspetti strutturali
ed istituzionali più “duri”, sembra esser diventato una sorta di alibi, in
quanto si individua un termine di paragone in riferimento al quale tutte le
inadeguatezze, le piccole e grandi violenze, le manipolazioni, le coercizioni e
le negazioni di diritti che spesso si consumano prima, durante e dopo
l’inserimento nelle comunità terapeutiche rischiano di essere sottostimate,
trascurate e considerate lontane da ogni logica manicomiale.
Prendendo
spunto da queste riflessioni, che nascono da una semplice ma significativa
analisi esperienziale sviluppata nel corso degli anni, val la pena provare ad
approfondire la questione riprendendo le analisi di Franco Basaglia (noto per
il nome, ma il cui pensiero resta ignoto o ignorato dai più), per il quale, nel
processo di chiusura dei manicomi, la comunità terapeutica aveva avuto un ruolo
strategico ed aveva rappresentato un punto di partenza, ma non di arrivo,
risultato valido “fino al momento in cui il campo d’azione si è andato
trasformando e la realtà istituzionale ha mutato faccia”. Già al momento delle
sue prime sperimentazioni, la stessa definizione di comunità terapeutica aveva mostrato
alcune ambiguità, perché poteva essere strumentalmente intesa “come la proposta
di un modello risolutivo che, nella misura in cui è accettato e inglobato nel
sistema, viene a perdere la sua funzione contestante”. Per questo Basaglia si era
sempre rifiutato di presentarla “come un modello istituzionale che
verrebbe vissuto come la proposta di una nuova tecnica risolutrice di
conflitti. Il senso del nostro lavoro non può che continuare a muoversi in
una dimensione negativa che è, in sé, distruzione e insieme
superamento [che deve] entrare nel terreno della violenza e dell’esclusione del
sistema socio-politico, rifiutando di farsi strumentalizzare da ciò che si
vuole negare”[1].
La
comunità terapeutica doveva essere (e dovrebbe continuare ad essere), un “mezzo
di esplicitazione delle contraddizioni della realtà su cui la malattia mentale
nasce e si instaura”, diversamente sarebbe stata (allora come oggi), solo utile
a cambiare la forma ma non la sostanza delle cose, facendo sì che ci si ritrovi
“prigionieri di una prigione senza sbarre, da noi stessi edificata, esclusi
dalla realtà su cui presumevano di incidere”, rinchiusi all’interno “di
bellissime costruzioni, [anche] tecnicamente perfette, dove il malato
continuerebbe ad essere l'ultimo anello di una catena di violenze e di
esclusioni [dalla famiglia, dal lavoro, dagli amici, dalla società, …], di cui
continueremmo ad illuderci di non essere responsabili”[2].
Quali
erano il senso e la “terapeuticità” della comunità terapeutica nell’esperienza
di Basaglia? Erano strettamente ed inscindibilmente legati all’instaurarsi di
una nuova dimensione relazionale (più umana, democratica e giusta), tra tutte
le persone che la attraversano: “non è la comunità terapeutica, come
organizzazione data e fissata entro nuovi schemi, diversi da quelli della
psichiatria asilare che garantisce la terapeuticità della nostra azione. È il
tipo di rapporto che viene ad instaurarsi all’interno di questa comunità che la
renderà terapeutica, nella misura in cui riuscirà a mettere a fuoco le
dinamiche di violenza e di esclusione presenti nell’istituto, cosi come nella
intera società; creando i presupposti per una graduale presa di coscienza di
questa violenza e di questa esclusione, in modo che il malato, l’infermiere,
(l’educatore, lo psicologo, l’OSS, NdR) e il medico abbiano la possibilità di
fronteggiarle, dialettizzarle e combatterle, riconoscendole strettamente legate
ad una struttura sociale particolare e non come un dato di fatto ineliminabile”[3].
È
lo svelamento delle contraddizioni e la compartecipazione alla contestazione di
un contesto segregante e di un sistema socio-politico che escludono e soffocano
le persone, negando diritti, diversità e fragilità, l’ambito di impegno
primario per la cura, la libertà e la liberazione comune. Se non si fosse
partiti da qui e se le comunità terapeutiche non avessero assunto un ruolo di
soggetti attivi in questo processo di liberazione e se non avessero guardato al
contesto sociale, economico e politico, per promuoverne una profonda
trasformazione, si sarebbero risolte in nuove istituzioni in cui le logiche
manicomiali, in modo più morbido e dolce, avrebbero continuato a vivere: “La
comunità terapeutica, nata come rifiuto della realtà manicomiale,
nell’accettare di essere proposta come modello teorico di una nuova realtà
istituzionale, può correre il rischio di diventare una tecnica fine a se stessa
che tenda a coprire, attraverso una nuova ideologia, le contraddizioni sociali
che aveva tentato di rendere esplicite. In questo caso le vecchie istituzioni
manicomiali, definibili come istituzioni della violenza, posso facilmente
tradursi in istituzioni della tolleranza”[4].
Oggi
in un contesto in cui riemerge con forza una tendenza mai sopita allo stigma, alla
discriminazione ed esclusione delle persone con disturbi psichici, ed in cui le
diverse strutture rischiano di esserne stampella piuttosto che argine, sembra
essere necessario tornare ad interrogarsi sulle parole di Basaglia che appaiono
come quelle di un attento osservatore sociale, capace di anticipare le ricadute
delle mille metamorfosi di un sistema economico e sociale capace di
riorganizzare la propria violenza discriminatoria attraverso strutture, servizi,
tecniche e personale utili a mistificarla e a renderla maggiormente
manipolatoria, sofisticata e tollerabile.
Le
comunità terapeutiche e le varie strutture residenziali per la salute mentale
(salvo rari casi che, tuttavia, non possono essere usati come alibi di un intero
sistema), sembrano essere sempre più schiacciate dall’inseguire la
sostenibilità economica, quando non i profitti, e paiono sempre più affidate a personale
formato e convinto, anche in buona fede ed indipendentemente dal ruolo e dalla
qualifica, che il proprio lavoro non riguardi i diritti e non debba coinvolgere
la società mettendone in discussione alcuni funzionamenti, ma che sia confinato
nel qui ed ora della vita e del progetto comunitario e consista principalmente
nel con-finare le persone concedendo loro diversi gradi di libertà a seconda
del grado di “compliance” (o di accondiscendenza), nel con-vincerle
dell’ineluttabilità di alcune scelte che le riguardano, nel con-tenerle
occupate moltiplicando attività, laboratori e gite, nel compilare test, diari,
verbali, pieni di fredde valutazioni e vuoti tecnicismi, saldamente ancorati
all’idea, spesso ingenua, di doverle e poterle (anche per il loro bene), far
funzionare[5] meglio ed adattare alla
società: “Il compito di queste figure intermedie sarà quindi quello di
mistificare - attraverso il tecnicismo - la violenza, senza tuttavia
modificarne la natura; facendo sì che l’oggetto di violenza si adatti alla
violenza di cui è oggetto, senza mai arrivare a prenderne coscienza e poter
diventare, a sua volta, soggetto di violenza reale contro ciò che lo violenta. [Lo
psichiatra, lo psicoterapeuta, l’educatore, l’infermiere, …] sono i nuovi
amministratori della violenza del potere, nella misura in cui - ammorbidendo
gli attriti, sciogliendo le resistenze, risolvendo i conflitti provocati dalle
sue istituzioni - non fanno che consentire, con la loro azione tecnica
apparentemente riparatrice e non violenta, il perpetuarsi della violenza
globale. Il loro compito - che viene
definito terapeutico-orientativo - è quello di adattare gli individui
ad accettare la loro condizione di «oggetti di violenza», dando per scontato
che l’essere oggetto di violenza sia l’unica realtà loro concessa, al di là
delle diverse modalità di adattamento che potranno adottare”[6].
Per
evitare di essere inglobati da questo sistema e riprodurne la violenza,
diventata sottile e mascherata, l’unica possibilità che resta continua ad
essere quella di “conservare il legame del malato con la sua storia - che è
sempre storia di sopraffazioni e di violenze - mantenendo chiaro da dove
provenga la sopraffazione e la violenza[7] … In questo senso la
nostra azione non può essere che un rifiuto dell’atto terapeutico come
risolutivo di conflitti sociali, che non possono essere superati attraverso
l’adattamento di chi li subisce … tentando di resistere alle lusinghe delle
sempre nuove ideologie scientifiche in cui si tende a soffocare le
contraddizioni che è nostro compito rendere sempre più esplicite; consapevoli
di ingaggiare una scommessa assurda nel voler far esistere dei valori mentre il
non-diritto, l’ineguaglianza, la morte quotidiana dell’uomo sono eretti a
principi”[8].
Ma
oggi quali realtà, quali strutture, quali persone accetteranno questa sfida con
tutto ciò che comporta, in un contesto in cui i “malati” paiono essere troppo
spesso congelati da solerti “funzionari del consenso”[9] in rassicuranti certezze
diagnostiche ed oggettivati in progetti, sovente fittiziamente condivisi ed
utili solo a giustificare scelte “terapeutiche” già decise (per il loro bene).
Un contesto in cui le comunità terapeutiche sono diventate tassello di un
sistema sanitario che pare averne accresciuto l’ambiguità esternalizzandole e delegandole
per lo più a cooperative sociali ed a enti (privati e/o religiosi), calati nel
ruolo di attori subalterni e di gestori di servizi sempre più concentrati sulle
dimensioni economica e tecnico - organizzativa, sempre meno attenti a quella
etica e quasi del tutto indifferenti a quella politica, dimenticando che la
finalità globale di una comunità e di ogni realtà che voglia definirsi aperta
“è il mantenimento della soggettività del ricoverato, anche se la cosa può
andare a scapito dell’efficienza generale dell’organizzazione”[10], e che la strategia, “la
finalità prima di ogni azione è la persona, i suoi bisogni, la sua vita,
all’interno di una collettività (e non solo della comunità terapeutica, NdR)
che si trasforma per raggiungere la soddisfazione di questi bisogni e la
realizzazione di questa vita per tutti”[11].
Che
fine ha fatto la prioritaria e non negoziabile affermazione del profondo
“valore di ogni persona”, che dovrebbe essere riferimento costante di ogni
intervento e servizio, oltre che presupposto per la realizzazione di
quell’”utopia della realtà” che dovrebbe essere “una ricerca costante sul piano
dei bisogni, delle risposte più adeguate alla costruzione di una vita possibile
per tutti gli uomini”[12].
Forse
bisognerebbe, quindi, tornare, con profondo spirito critico ad un interrogativo
quanto mai attuale di Basaglia: “che senso può avere progettare tante comunità
terapeutiche, illudendoci di risolvere il problema psichiatrico generale?” Già,
che senso ha avuto ed ha ancora continuare a progettare e gestire quelli che,
in molti casi potrebbero essere definiti, e che molte persone vivono come
moderni manicomietti?
Per
provare ad abbozzare una risposta a queste domande sul piano pratico, sembra fondamentale
recuperare i presupposti del cammino intrapreso da Basaglia, per cercare di
proseguirlo con slancio e speranza, in una società in cui le contraddizioni
portate dalla malattia, dalla disabilità, dalla povertà, dalle migrazioni, sono
sempre meno assunte e affrontate in un’ottica comunitaria e in cui le
ingiustizie sociali sono, troppo spesso, trasformate in colpe da addossare alle
persone più vulnerabili.
Se
non sarà recuperata e riproposta la funzione politica delle strutture
residenziali come osservatorio privilegiato ed avanguardia per lo svelamento e la
contestazione delle contraddizioni, delle ingiustizie e delle violazioni dei
diritti del sistema sociale ed economico, in un tempo non troppo lontano si rischierà
di assistere (sul terreno preparato, anche inconsapevolmente, e sulle spoglie
delle stesse comunità terapeutiche), al ritorno ed alla ricostruzione di quei
manicomi, magari sotto altro nome, morbidamente ammodernati e meno
esplicitamente violenti, che si sperava di aver chiuso per sempre.
Si
tratta ancor oggi di una responsabilità necessaria e “rivoluzionaria” nella sua
ovvia semplicità, perché ciò che potrebbe passare, agli occhi di molti, come
un’avventura rischiosa e piena di minacce, è soltanto il rispetto di un
elemento civile e costituzionale: “il riconoscimento dei diritti dell’uomo,
sano e malato”[13].
Il presente articolo è stato pubblicato anche su Persone e Diritti.
Immagine in evidenza: vignetta di Mauro Biani che rappresenta Marco Cavallo con in groppa diverse persone nel cammino intrapreso di una rivoluzione mai conclusa. In primo piano in un angolo l'immagine di Franco Basaglia.
[1] F. Basaglia, Le istituzioni della
violenza, in Scritti (1953-1980), Milano, Il Saggiatore, 2017
[2] F. Basaglia, Appunti di
psichiatria istituzionale, in Scritti (1953-1980), cit.
[3] F. Basaglia, Le istituzioni della
violenza, in Scritti (1953-1980)
[4] F. Basaglia: Le istituzioni della
violenza e le istituzioni della tolleranza, in Scritti (1953-1980)
[5] M. Benasayag, Funzionare o esistere?,
Vita e pensiero, 2019
[6] F. Basaglia, Le istituzioni della
violenza, in Scritti (1953-1980)
[7] Ivi
[8] F. Basaglia, Il
problema della gestione, in L’utopia della realtà, Giulio Einaudi, 2005
[9] F. Basaglia, Crimini di Pace, Giulio
Einaudi Ed., 1975
[10] F. Basaglia, L’incidente,
in Scritti (1953-1980), cit.
[11] F. Basaglia, Crimini di Pace,
cit.
[12] F. Basaglia e F. O. Basaglia, Condotte perturbate. Le funzioni delle relazioni sociali, in L’utopia della realtà, cit.
[13] F. Basaglia, Introduzione a Il giardino dei Gelsi, in L’utopia della realtà, cit.
[14] F. Basaglia, Le istituzioni della
violenza, in Scritti (1953-1980)
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