Di
fronte ad un contesto globale che sembra saper solo più parlare il linguaggio
della violenza, dello scontro, della prevaricazione e della guerra, è non solo
utile ma, forse, necessario, avviare una riscoperta della nonviolenza e di una
resistenza che si basi su di essa per provare ad arrestare questa pericolosa
deriva e le sue drammatiche conseguenze.
Un
compito, però, non semplice e che deve attraversare alcune ambiguità, visto che
sempre più spesso le stesse richieste di pace, di diritti umani, di giustizia
sociale ed ambientale sono considerate quasi come dichiarazioni di guerra, e
chi le avanza è trattato alla stregua di un violento o di un nemico della
società, testimoniando come tutte le parole possono essere manipolate, e i loro
significati possono essere distorti.
Come
può infatti accadere che l’azione di un corteo pacifico di giovani studenti che
tenta di avanzare e/o che entra in contatto con le forze dell’ordine sia
bollata come un’aggressione “violenta” e che questa definizione manipolatoria
sia accettata come giustificazione di manganellate e violenze nei confronti dei
giovani stessi?
Una
possibile chiave di analisi e lettura la fornisce Judith Butler nel suo libro
“La forza della nonviolenza”, in cui evidenzia la necessità di prestare
attenzione alle oscillazioni delle cornici concettuali che presiedono al
significato di alcune parole e, riprendendo il pensiero di Walter Benjamin,
ricorda come “un regime legale, se vuole monopolizzare l’uso della violenza,
deve chiamare violenza ogni minaccia o sfida nei riguardi della sua autorità.
Inoltre, può ribattezzare la sua propria violenza come forza obbligatoria o
necessaria, persino come coercizione legittima; e poiché essa opera
effettivamente attraverso la legge, in quanto legge, è legale, il che significa
che è lecita”.
Etichettare
come “violente” le manifestazioni di dissenso e le richieste di pace, diritti
umani e giustizia, da parte di quelle autorità statali che si sentono
minacciate da tali iniziative, dovrebbe far emergere la necessità di
un’attenzione specifica al lessico politico che consente di pensare tanto la
violenza quanto la resistenza a essa, tenendo in debita considerazione quanto
quel lessico rischi di essere stravolto per schermare le autorità dalla critica
e dall’opposizione”.
In tale
prospettiva pare, quindi, di centrale importanza riscoprire e riaffermare il
valore, il significato e l’importanza strategica della nonviolenza, la cui
forza sta soprattutto “nelle modalità di resistenza a forme di violenza che,
regolarmente, occultano il proprio carattere violento”. La nonviolenza,
infatti, rende evidente l’astuzia con cui la violenza di stato si difende “per
ragioni di sicurezza” da chiunque manifesti forme di dissenso e di critica al
potere costituito.
Di
questa importante funzione disvelatrice della nonviolenza era già ben
consapevole il suo più grande testimone e promotore, M. K. Gandhi, che nei suoi
scritti sottolineava come: “Il seguace della resistenza civile nonviolenta
non può nuocere in alcun modo ad uno stato disposto ad ascoltare la voce
dell’opinione pubblica. Al contrario è pericoloso per uno stato
autocratico, poiché attira l’attenzione dell’opinione pubblica sulle questioni
per le quali oppone la sua resistenza contro lo stato”.
Questo
concetto era ripreso e riproposto in Italia da Aldo Capitini, che, dopo le
tragedie della guerra e del fascismo, ne faceva uno dei punti cardine nel
programma di ricostruzione di una società democratica ed in pace: “La forza
della nonviolenza consiste nel rifiutare di offrire all’avversario i pretesti
che giustifichino la sua repressione. Nonviolenza può essere il programma e la
tensione di persone isolate, e può diventare il metodo di lotta di grandi
moltitudini”.
Questa
duplice funzione della nonviolenza sia come metodo di lotta contro violenze ed
ingiustizie, sia come strumento di disvelamento delle “astuzie del potere”,
portava un altro suo testimone e promotore, M. L. King, ad affermare che: “La
nonviolenza è la risposta alle cruciali questioni politiche e razziali del
nostro tempo: il bisogno degli uomini di sconfiggere l'oppressione senza
ricorrere alla violenza”.
L’attualità
e la forza della nonviolenza, però, non si riducono alla riscoperta del suo
essere una strategia di lotta da usarsi occasionalmente o su questioni
specifiche (per quanto utile comunque, perché prepara persone e strutture ad
essere immuni dalla violenza e dall’oppressione). La nonviolenza è fondamentalmente
“uno stile di vita che gli uomini praticano per la trasparente moralità dei
suoi obiettivi”, ed un’articolata filosofia e strategia di azione che dovrebbe
essere caratterizzata da “apertura all’esistenza, alla libertà, allo sviluppo
di tutti, … una ricerca di tecniche e di metodi di lotta compatibili con
l’amore e con il rispetto della verità”.
La
“forza della verità” che avevano in mente Ghandi, M. L. King, Capitini, …, è
strettamente legata ad una postura fisica e spirituale, ad un modo di vivere,
esistere e resistere, come singoli e come comunità, specialmente in condizioni
in cui la propria persistenza è minacciata. E, come conclude la sua analisi
Butler, “continuare a esistere anche in condizioni di repressione delle
relazioni sociali costituisce la più grande minaccia al potere violento”.
Domenico Massano
Immagine in evidenza: una donna con un fiore davanti ad agenti schierati e con le baionette puntate.
(Articolo già pubblicato su Persone e Diritti)
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