Il volontariato è uno dei soggetti che popolano il mondo carcerario e che contribuiscono a quella che dovrebbe esserne la finalità rieducativa e risocializzante. Come, infatti, recita l’articolo 27 della Costituzione: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato” e, nel caso della detenzione in carcere, tale finalità è ulteriormente specificata e declinata concretamente, nella normativa sull’Ordinamento Penitenziario (l. 26 luglio 1975, n. 354), il cui articolo 1 recita: “Il trattamento penitenziario deve essere conforme a umanità e deve assicurare il rispetto della dignità della persona … e si conforma a modelli che favoriscono l’autonomia, la responsabilità, la socializzazione e l’integrazione”.
In tale prospettiva la partecipazione della comunità
esterna e del volontariato hanno un ruolo ben specifico e un valore
riconosciuto dalla stessa normativa nel concorrere “all’opera rivolta al
sostegno morale dei detenuti e degli internati, e al futuro reinserimento nella
vita sociale” (art. 78), tanto che le stesse amministrazioni hanno il compito
di promuoverla: “La finalità del reinserimento sociale dei condannati e degli
internati deve essere perseguita anche sollecitando ed organizzando la
partecipazione di privati e di istituzioni o associazioni pubbliche o private
all’azione rieducativa [e di] tutti coloro che avendo concreto interesse per
l’opera di risocializzazione dei detenuti dimostrino di potere utilmente
promuovere lo sviluppo dei contatti tra la comunità carceraria e la società
libera” (art. 17).
L’importanza del ruolo, riconosciuto e definito dalla
normativa, è, quindi, sia di tipo quantitativo (basti pensare che si contano
circa 19.500 volontari carcerari, a fronte di circa 32.500 agenti), sia di tipo
qualitativo in particolare relativamente alla funzione di accompagnare le
persone detenute nel ritrovare un ruolo nella società, coerentemente con il
dettato costituzionale.
Purtroppo, però, come in un suo recente rapporto sulle
condizioni della detenzione in Italia rilevava l’Associazione Antigone,
nonostante questa importante e continuativa presenza supplisca “anche, e
soprattutto, alle carenze trattamentali e di servizi dell’Amministrazione
penitenziaria”, quest’ultima “spesso, invece di aprire le porte ai volontari,
si chiude su sé stessa”, complicandone e non agevolandone il ruolo, se non per
quegli aspetti ritenuti funzionali alla gestione delle persone detenute e/o
della struttura (piccole spese, sigarette, vestiario, materiali d’uso,
…).
Svolgendo da diversi anni attività come volontario nel
carcere di Asti (mi occupo principalmente del coordinamento del progetto
editoriale interno “Gazzetta Dentro”), devo dire che tali considerazioni
riflettono abbastanza anche l’andamento della situazione locale, anzi, l’anno
appena trascorso ha visto diverse criticità e chiusure per i volontari,
culminate nella sospensione delle attività per circa due mesi a causa di alcuni
adempimenti burocratici.
Insomma è evidente sia la complessità del ruolo svolto
dal volontariato all’interno delle carceri, sia la multifattorialità delle
ragioni per cui i volontari continuano ad essere tollerati quasi con fastidio dagli
agenti e per lo più considerati una presenza “scomoda” per le amministrazioni.
È indubbio che servirebbe un atteggiamento di
coordinamento e di collaborazione differente, per valorizzare e rendere
maggiormente efficaci e sistemiche le attività del volontariato e per
appianare, se non risolvere, le diverse criticità che le accompagnano ed
ostacolano.
In tal prospettiva il Presidente dell’ufficio Garante
nazionale delle persone private della libertà, Mauro Palma, in una sua
relazione ha evidenziato alcuni presupposti e criteri di base da cui partire,
evidenziando “la necessità che la fondamentale cooperazione tra chi amministra
e istituzionalmente opera in un Istituto e chi in esso svolge attività volte a
saldare proficuamente il rapporto con la realtà esterna risponda all’esigenza
di chiarezza della diversità dei ruoli, nel rispetto reciproco”[4].
Infatti, pur tenendo conto della particolarità del
contesto e dei cronici problemi strutturali e di organico, l’impressione è che
manchi soprattutto un percorso condiviso ed orientato dalla prospettiva
rieducativa della pena carceraria (art. 27 Cost.), che dovrebbe essere poi
sostenuto da un impegno politico e da una pratica amministrativa capaci di darvi
concreta attuazione.
Forse sarebbe importante investire nella costruzione
di un tale percorso (ad es. attraverso iniziative formative, incontri aperti,
progettualità condivise, …), anche per sviluppare ed implementare virtuose e
continuative sinergie tra carcere, volontariato e comunità esterna, per far sì
che la reclusione per le persone detenute non si traduca in un tempo svuotato,
di privazione di diritti e speranza, ma perché il tempo “sottratto” abbia
sempre un significato e la pena conservi la sua tensione rieducativa
costituzionalmente prevista.
Domenico Massano
(articolo pubblicato anche sul periodico online Persone e Diritti)
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