Articolo già pubblicato su Persone e Diritti.
Prologo. Nelle
riunioni di redazione della Gazzetta Dentro[1], il giornale della Casa di
Reclusione A. S. di Asti, il tema lavoro emerge frequentemente e con forza. Più
che un desiderio, un richiamo all’attuazione della Costituzione da parte delle
persone detenute, dietro cui traspare una volontà di riscatto, di
riconoscimento, di dignità e di speranza per il futuro, con lo sguardo rivolto
anche alle proprie famiglie. Ne parlano in diversi articoli ed interviste, che
occasionalmente si svolgono con aziende ed imprenditori, da cui traluce la
centralità di questo aspetto:
“Le
patrie galere così per come sono adesso, sono spesso luoghi che non hanno una
funzione rieducativa. Forse molti pensano che il carcere sia una medicina. Se
fossero applicate le leggi della nostra Costituzione, dove si stabilisce che la
condanna deve avere una funzione rieducativa e non certo vendicativa, allora il
carcere potrebbe essere una medicina. Purtroppo, non è così e da un’analisi del
carcere per com’è adesso, possiamo solo dedurre che è per molti aspetti simile
ad una malattia che fa aumentare la recidiva. Bisogna fare qualcosa per
migliorare le persone. Con la sofferenza e la rabbia, sarà difficile. La pena
deve essere certa, ma ci deve essere altrettanta certezza della possibilità di
recupero. E questo può avvenire semplicemente con il lavoro in carcere … Se
manca questo, allora è inutile parlare, perché il problema nelle carceri
rimarrà sempre”[2].
È importante, quindi, provare, ad approfondire un po' il tema dell’assenza/presenza del lavoro per i detenuti, e delle sue ragioni, cercando di evidenziare le contraddizioni che ne emergono non solo per il mondo carcerario e per la sua organizzazione, ma anche per la società tutta.
Carcere
e lavoro
Il
tempo “sottratto” come sottolineato dal Presidente del Garante nazionale dei
diritti delle persone private della libertà personale, Mauro Palma, “deve avere
sempre significato” coerentemente con il dettato costituzionale: “Le pene non
possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere
alla rieducazione del condannato” (art.27 c.3). L’imprescindibile impegno al
concreto ed effettivo orientamento della pena detentiva alla finalità
costituzionalmente espressa rappresenta “la concretizzazione di un diritto
soggettivo della persona reclusa”[3]. Nel caso della detenzione
in carcere, tra i principali fattori che possono concorrere al raggiungimento
di questo traguardo vi sono le opportunità lavorative e formative[4], come specificato e
declinato concretamente, nelle norme sull’Ordinamento Penitenziario (l. 26
luglio 1975, n. 354)[5], che individuano nel
lavoro uno degli elementi più importanti (se non il più importante) del
trattamento: “Il trattamento del condannato e dell'internato è svolto
avvalendosi principalmente dell'istruzione, della formazione professionale, del
lavoro … salvo casi di impossibilità, al condannato e all'internato è
assicurato il lavoro” (art. 15). Questa centralità del lavoro nella previsione
trattamentale è ampiamente normata nell’articolo 20 (come riformato dai d.lgs.
123 e 124/2018) e successivi in cui si ribadisce che “devono essere favorite in
ogni modo la destinazione dei detenuti e degli internati al lavoro … lavoro che
non deve avere carattere afflittivo ma deve essere organizzato coerentemente
con le normali condizioni del lavoro nella società libera e nel rispetto della
normativa vigente anche se remunerato meno per i detenuti che lavorano alle
dipendenze dell’Amministrazione penitenziaria”, ossia “in misura pari ai due
terzi del trattamento economico previsto dai contratti collettivi”. La legge
richiede, inoltre, da una parte che a livello nazionale il Ministro della
Giustizia predisponga annualmente, entro il 31 marzo, un’analitica relazione
circa lo stato di attuazione delle disposizioni di legge relative al lavoro dei
detenuti nell'anno precedente, e dall’altra parte che a livello locale siano
attive presso ogni Regione e presso ogni istituto carcerario Commissioni per il
lavoro penitenziario. In particolare le Commissioni interne alle singole
carceri dovrebbero essere composte dal direttore, dal dirigente sanitario, da
responsabili delle aeree pedagogica e sicurezza, da un funzionario dell’ufficio
per l’esecuzione penale esterna, da rappresentanti sindacali e dal direttore
del centro per l’impiego, ed hanno tra i vari compiti quello di formare elenchi
di detenuti per l’assegnazione dei posti di lavoro, stabilendo anche criteri
per il loro avvicendamento.
Un
articolato sistema di diritti/doveri e prescrizioni normative che si accompagnano
a quelle costituzionalmente previste[6], ma che, purtroppo, non sembrano
trovare puntuale riscontro nei fatti. Sono le stesse persone ristrette a
raccontare che nella concretezza della vita reale queste previsioni formali non
corrispondono alla verità pratica: “Si tratta di norme lontanissime dalla
realtà, nella quale due detenuti su tre non svolgono alcun lavoro e solo in
minima percentuale hanno la fortuna di essere impegnati in prestazioni veramente
professionalizzanti e con la realistica prospettiva di un lavoro da liberi. Il
lavoro carcerario è poco e per pochi”[7].
Questa
contraddizione sovente è mascherata da interventi retorici, da narrazioni sulle
sporadiche esperienze virtuose o da periodiche Relazioni, come, ad esempio,
quella del Ministero della Giustizia per l’Inaugurazione dell’Anno Giudiziario
2023[8], in cui si afferma che
“l’Amministrazione penitenziaria ha sempre curato con particolare attenzione il
tema del lavoro penitenziario … al fine di favorire il reinserimento sociale
lavorativo dei detenuti, una volta scontata la pena”, sottolineando l’importanza
di una ampia e corretta applicazione della Legge 193/2000, cd. “Smuraglia”, che
prevede sgravi fiscali e contribuitivi in favore delle realtà imprenditoriali
che operano all’interno degli istituti penitenziari.
Dichiarazioni
che non rispecchiano fedelmente la realtà del lavoro in carcere. Infatti su
56.107 detenuti (dati aggiornati al 30 giugno 2022), sono 18.654 (meno di uno
su 3), quelli che hanno un’opportunità lavorativa e di questi solo 2.473 (appena
4 su 100) rientrano nell’ambito di applicazione della legge Smuraglia e sono
impiegati alle dipendenze di soggetti esterni con un lavoro “vero”, mentre i
restanti 16.181 detenuti sono impiegati alle dipendenze dell’Amministrazione
penitenziaria, per lo più con incarichi di manutentore, addetto alla refezione
(cuochi e portavitto), barbiere, addetto alle pulizie, addetto alla lavanderia,
scrivani, …, lavori in generale assai poco qualificati e che difficilmente
conferiscono competenze spendibili successivamente nel mondo del lavoro.
Si
deve, poi, rilevare che i numeri dei detenuti lavoratori spesso non fanno
riferimento a impieghi a tempo pieno, ma indicano il numero di coloro che hanno
avuto modo di lavorare durante l’anno, indipendentemente dal monte ore e dalla
durata del contratto di lavoro. Nella maggior parte degli istituti penitenziari
non si riesce, infatti, a garantire un lavoro a tutti coloro che ne avrebbero
diritto e bisogno, ed il quadro della situazione che emerge, come ad esempio
nei Rapporti annuali sulle condizioni di detenzione dell’associazione Antigone,
è alquanto desolante: “il diritto-dovere di lavorare per i detenuti definitivi
si configura come un privilegio, … la possibilità di provvedere al proprio
sostentamento e a quello del proprio nucleo familiare con il lavoro in carcere
è limitata, dato che le poche opportunità vengono ripartite in modo da tenere “impegnati”
quanti più detenuti possibile per un breve periodo di tempo, o con orari lavorativi
part-time … i lavoranti percepiscono al massimo uno stipendio mensile di circa
600 euro. Le attività che i detenuti svolgono in carcere sono perlopiù poco “professionalizzanti”,
e difficilmente si riesce a costruire un percorso di reinserimento che consenta
al detenuto di svolgere anche all’esterno l’attività che svolgeva in carcere. I
corsi professionali sono sempre meno ed è venuto quindi a mancare un importante
anello di congiunzione tra il carcere e la società”[9] [10] [11].
Con
lo scopo di dare maggiore impulso alle opportunità formative e lavorative per
le persone ristrette (almeno formalmente), recentemente (giugno 2023) è stato
siglato un Accordo Interistituzionale tra Ministero della Giustizia e CNEL in
cui si sottolinea come “il lavoro rappresenta uno degli elementi del
trattamento penitenziario finalizzati al reinserimento sociale dei detenuti ed
al conseguente abbattimento del rischio di recidiva”[12]. Tale accordo che
dovrebbe testimoniare le “buone” intenzioni e l’impegno istituzionale in tale
ambito, nasce pochi mesi dopo una fotografia della situazione fornita dallo
stesso CNEL particolarmente preoccupante, che confermava quanto rimarcato nei
rapporti di Antigone e dai detenuti stessi: “Il numero di coloro che
usufruiscono attualmente di un posto di lavoro rimane estremamente basso e le
attività lavorative sono svolte perlopiù alle dipendenze della stessa
Amministrazione penitenziaria, consistendo in occupazioni poco o affatto
qualificanti, sfavorevolmente remunerate e distribuite a rotazione ad un ampio
bacino di detenuti”. L’analisi si concludeva affermando che “il dato normativo,
dunque la finalità rieducativa della pena - come Costituzionalmente prevista
dall’art. 27 – non coincide con la realtà”. Il CNEL sottolineava anche come la
lettura delle statistiche inerenti alla c.d. recidiva assuma “un ruolo
essenziale al fine di operare una corretta valutazione in ordine ad
un’effettiva rieducazione, volta al reinserimento nella società civile … la
recidiva per i detenuti non lavoratori si aggira intorno al 70%,
differentemente da quanto avviene invece con coloro che in carcere hanno
appreso un lavoro, per i quali la recidiva scende drasticamente intorno al 2%”[13]. Dai dati diffusi dal
precedente presidente del CNEL, Tiziano Treu, nel corso del convegno “Le
dimensioni della dignità nel lavoro carcerario” svoltosi nel mese di dicembre
2022 a Roma, emergeva, infatti, come se il tasso complessivo medio di recidiva
stimato sull’intera popolazione carceraria di 56.107 detenuti si aggira intorno
al 70%, per i 18.654 detenuti che in carcere lavorano e/o hanno appreso un
lavoro, la recidiva, che rappresenta una delle principali questioni e problemi
che riguardano il mondo carcerario, scende intorno al 2%[14] [15].
Con
queste percentuali di riduzione delle recidive (dal 70% al 2%), sorprende che
la possibilità di lavorare sia data solo al 32% delle persone ristrette (anche
in considerazione degli alti costi giornalieri pro capite di circa 150 euro),
risultando innanzitutto evidente che la garanzia del diritto al lavoro è la
strada più corretta ed efficace per favorire il reinserimento sociale e per
dare attuazione alla finalità rieducativa della pena costituzionalmente
prevista. Non solo, perché abbattendo il dato sulle recidive da una parte si garantirebbe
maggiore sicurezza sociale nella comunità (meno persone tornano a commettere
reati), e dall’altra si diminuirebbe il numero complessivo dei detenuti (riducendo
così i costi dell’intero sistema carcerario e risolvendone diversi problemi
cronici: sovraffollamento, carenze di organico, spazi ridotti, …).
Allargando,
poi, lo sguardo alla società, si dovrebbe prendere coscienza del fatto che con maggiori
opportunità lavorative per tutti (dentro e fuori) non solo si darebbe
attuazione al dettato costituzionale, ma si inciderebbe direttamente sul numero
di crimini, ossia più lavoro meno delinquenza (e viceversa), con la logica
conclusione che i principali investimenti per la sicurezza sono quelli in
formazione e lavoro. Dal momento, inoltre, che
la mancanza di opportunità lavorative è una delle principali determinanti della
detenzione, fatta salva la responsabilità personale (perché c’è sempre
possibilità di scegliere diversamente), bisogna rilevare come vi sia anche una
responsabilità sociale/istituzionale perché le ingiustizie sociali e la mancata
attuazione del dettato costituzionale sono uno dei fattori che più
contribuiscono all’aumento della criminalità.
Questa
dimensione sociale è fondamentale nell’affrontare da una prospettiva corretta
la questione carcere perché, come affermava Basaglia, l’artefice del
superamento in Italia dei manicomi, parlando del carcere e facendo un parallelo
tra le due istituzioni totali: “La delinquenza o la malattia sono
contraddizioni dell'uomo, ma sono anche un prodotto sociale, e non si può farne
pagare le conseguenze, sotto coperture scientifiche diverse, a chi ne è colpito
come se si trattasse sempre e solo di una colpa individuale”[16].
In
un intervento al convegno “La riforma carceraria”[17] svoltosi nel 1974, l’anno
precedente all’approvazione della legge 354/75 sull’Ordinamento Penitenziario,
con considerazioni di grande attualità e con la chiarezza e l’onestà
intellettuale che lo contraddistinguevano, Basaglia si soffermava sulla
centralità e sull’importanza di un “vero” lavoro: “Siamo in un momento in cui
si sta varando una riforma … Tuttavia anche agli occhi di un profano la pena
carceraria resta afflittiva, il lavoro una forma ammodernata di mercede, la
riabilitazione una parola vuota di significato se non si riesce a capire chi si
vuole riabilitare, per quale società, e quali siano i modi della
riabilitazione, se il lavoro per il detenuto continua ad essere un lavoro diverso
… L’elemento lavoro conserva il carattere dell’istituzione stessa e serve più a
questa che all’individuo: è un mezzo di controllo, un’occupazione che previene
l’ozio (fonte di degradazione, ma anche fonte di uno scontento che può
facilmente organizzarsi in rivolta); è un mezzo di soggezione (gli internati
fanno solitamente i lavori più umilianti, più faticosi, più degradanti); è
affidato all’arbitrio del direttore dell’istituto che lo distribuisce in base
alla “Buona condotta” (giudizio di valore esplicitamente soggettivo, che si
riferisce all’adattamento alle regole dell’organizzazione e al grado di
sudditanza dell’internato, quindi alla sua capacità di “non piantar grane”); è
uno sfruttamento … se il lavoro deve essere uno degli strumenti di risocializzazione,
deve trattarsi in un lavoro alla pari del lavoro nella comunità”.
L’attualità
di queste considerazioni emerge dal confronto con le amare e molto simili conclusioni
di un recente Rapporto di Antigone: “Difficilmente il lavoro in carcere contribuisce
al reinserimento, e sembra essere al massimo un diversivo, un modo per far
trascorrere con qualche attività il tempo della detenzione, un modo per far
guadagnare pochi soldi in un’ottica di eterno presente che non getta le basi
per il futuro”[18].
Pur
non sottovalutando, infatti, l’importanza per chi vive in un contesto deprivato
di tutto anche dei “lavoretti”, perché “quando si vive una dimensione
sovraccarica degli infiniti bisogni della marginalità ed afflitta da cronica
mancanza di risorse, anche qualche ora sottratta all’ozio forzato e una
limitata remunerazione possono fare la differenza”, non bisogna dimenticare che
altro è ciò che potrebbe garantire le finalità previste dall’ordinamento: “O il
lavoro nelle carceri e nei manicomi è l’elemento che serve a garantire la
continuità della vita dell’internato, anche nel periodo dell’internamento,
garantendogli insieme tutti i diritti di cui l’internamento lo priva; o il
lavoro, la riabilitazione, il recupero sono parole vuote di significato e prive
di ogni fondamento reale”.
O,
se si vuole, come suggeriscono i detenuti stessi: “Pura mitologia sembra quella
di chi parla di lotta all’illegalità, contrasto della recidiva, percorsi di
reinserimento senza la più profonda e prioritaria promozione del lavoro, della
sua «unzione» di dignità, del suo volto costituzionale. Dentro e fuori dal
carcere”[19].
Secondo
Basaglia quanto si può dedurre da quest’ordine di cose (deduzione ancor valida
perché il dato di realtà pare esser rimasto pressoché immutato in tutti questi
anni), è molto semplice: non vi è alcun interesse a riabilitare coloro che
hanno sgarrato dalle regole della società, “perché riabilitare e recuperare
significa garantire il lavoro ed un minimo di vita” e “anche se la nostra Repubblica
si fonda sul lavoro, non c’è lavoro per tutti. La nostra società, il nostro
paese, con un’enorme percentuale di disoccupati e sottoccupati, che interesse possono
avere al recupero e alla riabilitazione degli scarti umani?”.
“Non
c’è riforma della prigione senza la ricerca di una nuova società”, gli faceva
eco in quegli stessi anni Foucault, che proseguiva suggerendo che evidentemente
(allora come oggi) manca un reale interesse ed una volontà riformatrice, ed il
presunto “fallimento” del carcere[20], è in realtà ingannevole
perché: “la fabbricazione della delinquenza da esso compiuta non è un suo
fallimento, è la sua riuscita, perché era fatto per questo. La prigione permette
la recidiva, assicura la costituzione di un gruppo di delinquenti ben
professionalizzato e ben chiuso in sé stesso. … escludendo qualsiasi
reinserimento sociale, assicura che i delinquenti restino delinquenti e che,
d’altra parte, essendo delinquenti, rimangano sotto il controllo della polizia
e, se si vuole, a sua disposizione. La prigione non è quindi un deterrente alla
delinquenza o all’illegalismo, è un redistributore d’illegalismo”[21].
Le Regole minime standard per il
trattamento dei prigionieri (Regole di Nelson Mandela) adottate dalle Nazioni
Unite nel 2016, sono molto chiare sugli scopi della detenzione e sull’unica
strada per raggiungerli: “Gli scopi di una pena detentiva sono, in primo luogo,
proteggere la società contro la criminalità e ridurre la recidività. Tali scopi
possono essere raggiunti solo se il periodo di detenzione è utilizzato per
garantire il reinserimento delle persone nella società dopo il rilascio, in
modo che possano condurre una vita autosufficiente e rispettosa della legge. A tal fine, le
amministrazioni carcerarie e le altre autorità competenti dovrebbero offrire
istruzione, formazione professionale e (soprattutto, ndr)
lavoro” [22].
Il resto sono solo chiacchiere, “pura
mitologia”, retorica che non si trasforma mai in
riforma e trasformazione sociale in un contesto carcerario in cui “I
detenuti impegnati in attività lavorativa restano pochi a fronte di coloro che
permangono in condizioni di inattività, i corsi di formazione sono
insufficienti, i livelli di specializzazione sono di fatto inesistenti e
l’applicazione del regime di turnazione all’interno di singoli istituti
comporta che i detenuti restano impiegati per periodi di tempo brevi mentre i
periodi di inattività si dilatano alimentando frustrazione e malcontento”[23].
Il modo in cui l’amministrazione penitenziaria e le istituzioni politiche continuano ad affrontare e portare avanti la questione lavoro, centrale nel garantire la finalità rieducativa costituzionalmente prevista e nell’abbattere il numero delle recidive, non solo sembra confermare l’analisi di Foucault, su una sorta di “interesse” a mantenere lo status quo, ma evidenzia quella contraddizione che secondo Basaglia emerge nella distanza tra “la funzione formale, astratta, teorica di un’istituzione, e la sua pratica reale”, ammonendo che “la verità sta nella pratica”[24], e che per cambiarla bisogna volerlo non a parole ma, appunto, nella pratica. Ma bisogna volerlo.
Epilogo
Un detenuto, redattore della Gazzetta Dentro
nel carcere di Asti, in un articolo scriveva che “Essenzialmente
il carcere è il riflesso di ciò che c’è al di là da queste quattro mura,
solamente che tutto è racchiuso in pochi metri … ed è amplificato”[25]. Il carcere non è un organismo estraneo alla società, ma la
riguarda e vi è strettamente collegato. Proprio per questo dall’analisi di alcune
pratiche reali interne all’ambito carcerario, come quelle legate al tema del
lavoro, si possono provare a leggere con occhi diversi anche importanti
questioni che riguardano l’intera società, sgomberando il campo da strumentali
mistificazioni e facendo emergere le contraddizioni reali (politiche,
economiche e sociali), che nel carcere, come nell’intera società, spesso determinano
emarginazione, ingiustizie, povertà, violenza e delinquenza.
Domenico Massano
Immagine in evidenza a cura di Lucilla Vittone
[1] Massano Domenico, Fare un giornale
tra dentro e fuori il carcere. Se consentire l’espressione culturale rende più
degna la detenzione, Animazione Sociale 357, 07/2022, anche su Persone e
Diritti, https://personeediritti.altervista.org/gazzetta-dentro-il-carcere-il-tempo-la-citta-ed-un-giornale-tra-dentro-e-fuori/
[2] C. M., Il carcere deve essere pena
certa, ma anche possibilità di recupero, in Gazzetta Dentro
agosto/settembre 2022, pubblicato anche su Gazzetta d’Asti 22/07/2022.
[3] Garante Nazionale dei diritti delle persone private della libertà, Relazione al parlamento 2022. Cfr
anche: Palma M., Presentazione
della Relazione del Garante 2022 al Parlamento, Senato della
Repubblica, 20 giugno 2022, https://www.garantenazionaleprivatiliberta.it/gnpl/it/pub_rel_par.page.
[4] Garante Nazionale dei diritti delle persone private della libertà, cit.
[5] L. 354/75 art. 1: “Il trattamento
penitenziario deve essere conforme a umanità e deve assicurare il rispetto
della dignità della persona. Esso è improntato ad assoluta imparzialità, senza
discriminazioni in ordine a sesso, identità di genere, orientamento sessuale,
razza, nazionalità, condizioni economiche e sociali, opinioni politiche e
credenze religiose, e si conforma a modelli che favoriscono l’autonomia, la
responsabilità, la socializzazione e l’integrazione”.
[6] In particolare Costituzione Italiana, artt. 1, 3, 4, 35, 36.
[7] Detenuti di Costituzione viva, Carcere
S. Vittore Milano, In cella salvati dal lavoro, La stampa 2 luglio 2023.
[8] Relazione del Ministero sull’amministrazione
della giustizia anno 2022. Inaugurazione dell’Anno Giudiziario 2023. Cap.
Lavoro penitenziario, p. 758 e segg. https://www.giustizia.it/cmsresources/cms/documents/anno_giudiziario2023_relazione_amministrazione2022.pdf#page=690
[9] Antigone, XIII
Rapporto sulle condizioni di detenzione, La Repubblica (e il carcere)
fondata sul lavoro, 2017, https://www.antigone.it/tredicesimo-rapporto-sulle-condizioni-di-detenzione/04-diritto-al-lavoro/
[10] Ibidem
[11] Antigone, XVIII Rapporto sulle
condizioni di detenzione, Lavoro e formazione, 2022, https://www.rapportoantigone.it/diciottesimo-rapporto-sulle-condizioni-di-detenzione/lavoro-e-formazione-professionale/
[12] CNEL, Lavoro in carcere, accordo tra
CNEL e Ministero della giustizia, 17/06/2023, https://www.cnel.it/Comunicazione-e-Stampa/Notizie/ArtMID/694/ArticleID/2841/LAVORO-IN-CARCERE-ACCORDO-TRA-CNEL-E-MINISTERO-DELLA-GIUSTIZIA#:
[13] Gualaccini Gian Paolo, Realtà carceraria e mercato del lavoro: dignità e recidiva, su n° 1-2023 del Notiziario sul mercato del lavoro e la contrattazione del CNEL https://www.cnel.it/Comunicazione-e-Stampa/Notizie/ArtMID/694/ArticleID/2769/REALT192-CARCERARIA-E-MERCATO-DEL-LAVORO-DIGNIT1%E2%80%A6
[14] CNEL, Carcere, Treu: recidiva al 2% per detenuti che lavorano, 05/12/2022 https://www.cnel.it/Comunicazione-e-Stampa/Notizie/ArtMID/694/ArticleID/2563/CARCERE-TREU-RECIDIVA-AL-2-PER-DETENUTI-CHE-LAVO%E2%80%A6
[15] Antigone, XVIII Rapporto sulle
condizioni di detenzione, 2022, cit.
[16] Basaglia Franco, La giustizia che
punisce, in Scritti, Ed. Il saggiatore, Milano 2017, p. 663
[17] Basaglia Franco, La
giustizia che non riesce a difendere sé stessa, in Scritti, Ed. Il saggiatore,
Milano 2017, p. 829
[18] Antigone, XIII Rapporto sulle
condizioni di detenzione, 2017, cit.
[19] Detenuti di Costituzione viva, carcere
S. Vittore Milano, In cella salvati dal lavoro, La stampa 2 luglio 2023.
[20] Giordano F., Salvato C., Sangiovanni E.,
Il carcere. Assetti istituzionali e organizzativi, Ed. Egea, Milano,
2021. In questa ricerca dell’Università Bocconi di Milano, che parte dalla
domanda “Perché gli istituti di pena falliscono nel perseguire il fine istituzionale
della rieducazione dei detenuti che la Costituzione gli affida?” si afferma, ad
es., come la recidiva del 70% sia “evidenza del fatto che le carceri non
perseguono efficacemente il proprio fine istituzionale”.
[21] Foucault Michel, Alternative alla
prigione, Neri Pozza ed., Vicenza, 2022.
[22] ONU, risoluzione A/RES/70/175 08/01/2016, si veda regola n.4
[23] Antigone, XIX Rapporto sulle condizioni
di detenzione, 2023, Lavoro e formazione, https://www.rapportoantigone.it/diciannovesimo-rapporto-sulle-condizioni-di-detenzione/
[24] Basaglia Franco, La giustizia che
non riesce a difendere sé stessa, cit.
[25] S. G., Il carcere è il riflesso di
ciò che c’è fuori, in Gazzetta Dentro febbraio 2020, pubblicato anche su
Gazzetta d’Asti 21/02/2020.
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