Senza perdere la tenerezza (amarcord).

Tra il 18 giugno e il 10 luglio si è svolto “Senza perdere la tenerezza” il festival organizzato dalle ACLI di Asti con il coinvolgimento di altre realtà locali. Il sottotitolo “La cura della città per una città che cura”, specificava ulteriormente la finalità dei diversi incontri finalizzati ad aprire: “Una riflessione a più voci e con più testimoni sulle fragilità che la pandemia ci consegna ancora più evidenti, ancora più dolorose”.

Gli incontri si sono svolti nella bella cornice dell’ampio cortile del Foyer delle famiglie, nel centro di Asti, ed è qui che, con mio grande piacere (e anche in relazione al lavoro con la Rete Welcoming Asti che da qualche anno portiamo avanti insieme), son stato invitato venerdì 18 giugno per dialogare con Don Luca Solaro, moderati da Daniela Grassi, nell’incontro di apertura del festival che aveva l’obiettivo di delineare “i confini delle nostre riflessioni, di stimolare l’interesse di mettere le basi anche degli incontri che seguiranno che saranno dedicati alla formazione, alla scuola, ai ragazzi, all’attenzione e alla cura del territorio, alle esperienze di alcune cooperative sociali, ad una riflessione sulle strutture sanitarie e socioassistenziali e sulla possibilità di una nuova domiciliarità, allo sguardo sulla città”.

L’apertura e la valorizzazione del dialogo ha permesso di attraversare, accompagnati dall’alternarsi e dal sovrapporsi di prospettive e contributi laici e religiosi, temi importanti e centrali per prefigurare e contribuire a costruire “un altro mondo necessario”.

Come spesso capita dopo essersi preparati alcuni argomenti, il confronto apre a nuove riflessioni che portano a tralasciare alcuni temi per svilupparne altri. Ho, quindi provato a recuperare quanto avevo pensato, quasi a formare un piccolo archivio di parole non dette, ma che, comunque, hanno fatto da sfondo al mio intervento in cui mi ero proposto, come era solito fare Danilo Dolci, di condividere domande, “interrogativi intorno ai quali ricercare insieme”.

A partire da questa premessa che ben si integrava con lo spirito dialogico degli incontri, non è stato difficile collegarsi, seppur da una prospettiva laica, all’enciclica “Fratelli tutti” in cui il tema del dialogo è spesso richiamato: “Avvicinarsi, esprimersi, ascoltarsi, guardarsi, conoscersi, provare a comprendersi, cercare punti di contatto, tutto questo si riassume nel verbo “dialogare”. Per incontrarci e aiutarci a vicenda abbiamo bisogno di dialogare”.

Dialogo come premessa e frutto di incontri che stanno alla base della costruzione di una “pace reale e solida”: “La pace sociale è laboriosa, artigianale. Sarebbe più facile contenere le libertà e le differenze con un po’ di astuzia e di risorse. Ma questa pace sarebbe superficiale e fragile, non il frutto di una cultura dell’incontro che la sostenga. Integrare le realtà diverse è molto più difficile e lento, eppure è la garanzia di una pace reale e solida. ... Quello che conta è avviare processi di incontro, processi che possano costruire un popolo capace di raccogliere le differenze. Armiamo i nostri figli con le armi del dialogo! Insegniamo loro la buona battaglia dell’incontro!”.

Pace e dialogo, anche conflittuale e con chi vede le cose da prospettive diverse, sono la cifra identitificativa dei tre rivoluzionari “fratelli non cattolici”, il cui importante contributo è richiamato in chiusura dell’enciclica: Martin Luther King, Desmond Tutu, il Mahatma Gandhi.

Partendo da questi campioni della pace capaci di trasformare con la nonviolenza il mondo attorno a loro e lasciare un segno indelebile nella storia ed una traccia da seguire ancora oggi, ho cercato di riprendere alcuni tratti caratterizzanti del loro pensiero in relazione al tema degli incontri a partire dal metodo proposto per il cambiamento indicato da M. L. King nei suoi sermoni: “Una terza via si apre nella nostra ricerca della libertà, cioè la resistenza non violenta, che unisce l’acutezza di mente e la tenerezza di cuore ed evita la compiacente ignavia degli ottusi di mente e l’amara violenza dei duri di cuore”. Metodo riscontrabile anche nelle lotte di Desmond Tutu, in particolare quelle affrontate al fianco di Nelson Mandela, arricchito dal costante riferimento all’Ubuntu, ossia al legame che connette l’umanità nella sua interezza. Così ne parla nell’introduzione al libro “Ubuntu” scritto dalla nipote (e in cui sono richiamati anche Gandhi e M. L. King): “L’Ubuntu è uno degli elementi indispensabili per vivere una vita all’insegna del coraggio, della compassione e della solidarietà. … Ho ripetuto spesso che l’idea e la pratica dell’Ubuntu sono uno dei maggiori doni che l’Africa abbia dato al mondo ... La migliore espressione di questa filosofia è una massima presente in quasi tutte le lingue africane, che possiamo tradurre così: «Una persona è una persona tramite altre persone». Significa che tutto ciò che impariamo e sperimentiamo nel mondo si deve alle nostre relazioni con gli altri”.

Ho, successivamente, richiamato il fondamentale contributo del mahatma Gandhi in forma indiretta, attraverso le parole di Aldo Capitini, che ne ha fatto conoscere e diffuso il pensiero e le pratiche non violente in Italia e che è stato l’organizzatore della prima Marcia della Pace Perugia-Assisi nel 1961: “La nonviolenza è la manifestazione esterna di un modo di sentire e di pensare, che è l’amore per tutti … La nonviolenza è amore per ogni persona, non escludendo nessuno, non dicendo mai che basta. Come può essere inattiva, passiva? Chi ama è attivo, appassionato, insistente, desideroso, contento e scontento. Anzi, proprio il nonviolento è il più attivo di tutti, perché non solo vuole vincere dentro di sé l’indifferenza e l’odio, la stanchezza e l’egoismo, ma vuole vincere tutto ciò che colpisce e divide gli uomini, e perciò il nonviolento non accetta questa società”.

L’impegno e l’intuito di Capitini lo avevano, inoltre, portato a promuovere nel dopoguerra il C.O.S., Centro di Orientamento Sociale, un luogo di approfondimento, confronto e dialogo aperti alla partecipazione ed al contributo di tutti che così era presentato: Il nostro ideale è di essere Centri liberi e aperti della nuova socialità. E usiamo la parola Centro appunto perché è aperto, e non è un circolo chiuso, un partito; la parola orientamento perché abbiamo bisogno con la mente e con l’animo anzitutto di orientamento; la parola sociale perché tale orientamento è cercato e collocato dentro tutta la socialità e non su una montagna o in un cerchio limitato, sia famiglia, razza, nazione”.

Il metodo che stava alla base di questa scelta era quello di “creare uno spazio nonviolento e ragionante, secondo il vecchio nostro principio di «ascoltare e parlare»”, nella certezza che, così facendo, si sarebbe instaurato qualche cosa di nuovo, si sarebbe messa in moto una realtà migliore, una comunità aperta che avrebbe invitato a “dare senza bisogno di ricevere, aprire le menti, le situazioni, gli errori, i pregiudizi, i privilegi, senza con ciò volere le approvazioni e i compensi, senza creare il gruppo chiuso ed esclusivo”. Una prospettiva ed un impegno generativi e trasformativi perché “l’atteggiamento più lontano dal C.O.S. è il conformismo, l’accettazione della realtà sociale esistente, di tutta la così detta realtà. Il C.O.S. non si stanca mai di scoprire le inadeguatezze circostanti: non è persuaso del C.O.S. chi, in assoluta indipendenza e con fiducia di tendere al meglio, non aiuta sé e gli altri a scrutare la insufficienza di tutti gli elementi circostanti, dalla giustizia dei tribunali all’ingiustizia di tanti pregiudizi, dalla prepotenza dei potenti alle abitudini corrotte. Il C.O.S. deve portare un soffio di aria nuova, deve far anelare a una realtà dopo l’uomo e la società così come sono”.

Un luogo di incontro e dialogo, fondato sulla solidarietà e sull’impegno per la giustizia sociale, in una prospettiva che sembra riecheggiare anche nella enciclica “Fratelli tutti”, con particolare chiarezza: “Solidarietà è una parola che non sempre piace … È pensare e agire in termini di comunità, di priorità della vita di tutti sull’appropriazione dei beni da parte di alcuni. È anche lottare contro le cause strutturali della povertà, la disuguaglianza, la mancanza di lavoro, della terra e della casa, la negazione dei diritti sociali e lavorativi”.

Una prospettiva di giustizia e solidarietà che dovrebbe porre le sue basi nel dettato costituzionale e, in particolare negli articoli 2 e 3, che così erano presentati all’Assemblea Costituente nel 1947: “Preliminare ad ogni altra esigenza è il rispetto della personalità umana; qui è la radice delle libertà, anzi della libertà, cui fanno capo tutti i diritti che ne prendono il nome. Libertà vuol dire responsabilità. Né i diritti di libertà si possono scompagnare dai doveri di solidarietà di cui sono l'altro ed inscindibile aspetto. Dopo che si è scatenata nel mondo tanta efferatezza e bestialità, si sente veramente il bisogno di riaffermare che i rapporti fra gli uomini devono essere umani”. E così al dovere della Repubblica di “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale” (art. 3) che impediscono o limitano la libertà, l’uguaglianza, il pieno sviluppo e la partecipazione di tutte e tutti, si affianca la necessità dell’adempimento dei “doveri inderogabili di solidarietà” (art. 2) da parte e tra le persone.

Quelle del dettato costituzionale sono parole impegnative perché, come ricordava Calamandrei in un suo famoso discorso ai giovani sulla Costituzione: “la Costituzione non è una macchina che una volta messa in moto va avanti da sé. La costituzione è un pezzo di carta: la lascio cadere e non si muove. Perché si muova bisogna ogni giorno rimetterci dentro il combustibile, bisogna metterci dentro l’impegno, lo spirito, la volontà di mantenere queste promesse, la propria responsabilità”. Un significativo esempio di come dovrebbe essere declinata questa responsabilità nell’attuazione della Costituzione è riscontrabile nella vita e nell’esperienza politica di Giorgio la Pira, padre costituente come Calamandrei, che, da sindaco di Firenze, quando fu attaccato per aver requisito le case vuote della città per dare un tetto a chi non lo aveva, così rispondeva nel 1954 al consiglio comunale: “Ebbene, signori Consiglieri, io ve lo dichiaro con fermezza fraterna ma decisa: voi avete nei miei confronti un solo diritto: quello di negarmi la fiducia! Ma non avete il diritto di dirmi: signor Sindaco non si interessi delle creature senza lavoro (licenziati o disoccupati), senza casa (sfrattati), senza assistenza (vecchi, malati, bambini, ecc.)”.

Proprio a partire dall’operato di Giorgio la Pira come Sindaco, diversi anni dopo, in un intervento agli stati generali della città di Milano nel 1988, il Cardinale Martini propose una riflessione sul tema dell’amicizia per e nella città, andando oltre i propri piccoli orticelli, superando differenze, chiusure e divergenze e coltivando “le relazioni tra persone e gruppi, al di là delle affinità native di ciascuno”. L’impegno più generale che dovrebbe animare le persone in una comunità cittadina dovrebbe essere, infatti, quello di “creare canali di comunicazione tra i luoghi di lavoro e quelli della ricerca, i luoghi della sofferenza e quelli del tempo libero, le carceri e la buona società, le istituzioni culturali e la gente comune, gli emarginati e quelli che sono ricchi di relazioni”.

Il riferimento agli emarginati e agli esclusi, come parte irrinunciabile di un noi sociale in cui sia garantita a tutte le persone quella “pari dignità sociale” affermata dall’art. 3 della Costituzione, ritorna anche nell’ultima enciclica di Papa Francesco: “Voglio ricordare quegli “esiliati occulti” che vengono trattati come corpi estranei della società. Tante persone con disabilità «sentono di esistere senza appartenere e senza partecipare». … Ugualmente penso alle persone anziane «che, anche a motivo della disabilità, sono sentite a volte come un peso”.

Avrei voluto concludere, quindi, con il riferimento ad una persona a me cara, Roberto Tarditi, che per molto tempo è stato uno di questi “esiliati occulti”, ricoverato per troppi “anni senza vita” all’interno del Cottolengo, il grande istituto per persone con disabilità di Torino. Dal momento in cui, a inizio anni ‘80, scelse, con coraggio e dignità, di uscire e cercare di ricominciare a vivere in un appartamento insieme all’amico Piero (dando vita a una delle prime esperienze di vita indipendente di persone con gravi disabilità), ha dedicato le sue energie alla lotta per una vita libera per tutti e tutte, fondando l’Associazione Mai più istituti d’assistenza e battendosi “contro ogni forma di emarginazione e contro i ricoveri che nascono dalla diversità o dalla debolezza”.

Il suo messaggio aiuta e sprona ad assumere un impegno comune a a garantire i diritti e a tradurre in realtà le promesse di uguaglianza, libertà, solidarietà e giustizia sociale contenute nella Costituzione: “Durante la mia vita ho dovuto lottare per ottenere il diritto di diventare un uomo. La mia vita ha acquistato un senso, ma ora, quando penso al mio futuro, a volte mi sento stanco. Stanco di lottare. Ho paura di non farcela più. Ho paura che i diritti che abbiamo così duramente conquistato siano di nuovo messi in discussione e che si torni indietro. … Per questo non bisogna limitarsi a conquistare dei diritti, ma mobilitarsi perché diventino veramente esigibili. Abbiamo bisogno della solidarietà degli altri, ma di una solidarietà che si concretizzi in lotte, richieste, rivendicazioni concrete per l’attuazione completa dei nostri diritti”.

Purtroppo, come evidenzia il filosofo e pedagogista Edgar Morin nel suo recente saggio “Fraternità”, stiamo assistendo ad una progressiva perdita di senso della solidarietà, cui contribuiscono “l’isolamento delle persone all’interno del proprio ambito specializzato di lavoro (e di vita, ndr), che impedisce loro di accedere ad una visione o concezione d’insieme, e anche il dominio di un pensiero che separa e compartimenta, esso stesso incapace di accedere ai problemi fondamentali e globali della vita in società. … Si dice che siamo in una società della comunicazione, ed è vero, … ma ci si capisce sempre di meno … ovunque nasce e rinasce un bisogno del noi e del tu”.

Queste sono state alcune riflessioni che mi hanno accompagnato nella costruzione dell’intervento che ho tenuto al festival organizzato dalle ACLI di Asti “Senza perdere la tenerezza”, riviste, e in parte tralasciate, seguendo il percorso sviluppato insieme a chi ha partecipato alla serata (che si può rivedere nel video allegato). Il dialogo, la nonviolenza, gli spazi e le occasioni di incontro e convivialità, come questo, possono essere elementi costitutivi di piccole oasi di fraternità che, forse, non cambieranno il futuro dell’umanità, ma che sicuramente costituiscono quei necessari germi di speranza e “gli abbozzi di una civiltà del primato della fioritura personale nella fraternità, dell’io nel noi”.



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