Camminare domandando: la cooperazione sociale e l’interesse generale della comunità alla promozione umana e all'integrazione sociale.
"Mi chiamo Danilo, non faccio lezioni, preferisco porre interrogativi intorno ai quali possiamo ricercare insieme”. Danilo Dolci è stato un grande pedagogista del passato, un lottatore nonviolento per i diritti di tutte e tutti che credeva ostinatamente nell’importanza di dialogare e di seminare domande per procedere in un cammino comune: “Seminare domande in ognuno matura e germina risposte, voce e nuovo potere”. “Camminare domandando” è anche uno dei principi zapatisti che implica il riconoscimento degli altri come attori sociali per costruire insieme alternative e contesti sociali inclusivi e democratici. L’importanza degli interrogativi condivisi e delle domande aperte che generano dialogo e spronano ad un cammino comune nella ricerca di risposte è un’alternativa di non poco conto rispetto alla richiesta e/o alla offerta di risposte chiuse che spesso determinano immobilismo, passiva accettazione o frammentazione in contrapposizioni e scontri tra sostenitori di verità incapaci di dialogare tra loro.
Il paradigma della domanda si fonda sul dubbio, sulla finitezza umana, sull’incontro e sul dialogo ed è presupposto del “comunicare”. Quello della risposta si fonda su verità dogmatiche, sulla infallibilità di alcuni e sulla necessità di convincere/costringere chi non condivide all’accettazione ed è presupposto del “trasmettere”. Il conflitto nel primo caso, anche se acceso, è base di un confronto democratico con l’altro, mentre nel secondo caso si tramuta, spesso, in scontro in cui l’obiettivo è l’annullamento dell’altro.
Tra ottobre 2020 e marzo 2021 ho animato e attraversato un tentativo di traduzione pratica di questa prospettiva insieme ad un gruppo eterogeneo di persone della cooperativa sociale per la quale lavoro e per cui mi occupo anche della formazione. Lo spunto è stata la proposta, lanciata nei primi mesi della pandemia sulle pagine della rivista Animazione Sociale, di contribuire all’attivazione di una costituente sociale per “aprire una fase costituente che faccia tesoro degli apprendimenti sviluppati … intercettando quelle energie di cambiamento che animano tanti professionisti e organizzazioni dopo (e durante) i giorni del Covid-19”.
Il gruppo si è progressivamente ingrandito sino a raccogliere una ventina di persone e si è ritrovato periodicamente (su piattaforme online viste le restrizioni legate al Covid-19 e al di fuori dell’orario lavorativo), per condividere riflessioni, suggestioni, proposte, dubbi, domande e prospettive nate dalla discussione dei contenuti dell’articolo di Animazione Sociale ma che successivamente sono andate anche oltre. Lo spazio degli incontri si è contraddistinto per alcune caratteristiche fondanti: è stato uno spazio democratico e aperto (e indeterminato); uno spazio in cui ascoltare e parlare (e di sospensione del giudizio); uno spazio di condivisione e di riflessione (e non di dibattito).
Dopo una decina di incontri “a distanza”, ci si è fermati per fare il punto sul percorso fatto. La valutazione è stata complessivamente positiva, soprattutto perché è stato possibile recuperare un luogo, seppur virtuale, di riflessione e condivisione, in un momento in cui le criticità legate alla pandemia avevano fortemente condizionato il quotidiano e le prospettive dell’impegno lavorativo, con inevitabili ricadute sia sugli operatori sia sulle persone che frequentavano e/o erano ospitate nei diversi servizi.
I contributi emersi e la narrazione degli incontri sono stati, successivamente, raccolti in un documento che ho curato e che la redazione della storica rivista Animazione Sociale ha ritenuto di pubblicare, con il titolo “A noi tocca dare risposte o condividere domande?”, nel numero 345, 04/2021, all’interno del focus “Se non è politico che lavoro sociale è?”.
A qualche mese di distanza dalla conclusione di tale percorso, complessivamente virtuoso e generativo, val la pena provare a partire da quest’ultima domanda per sviluppare una breve riflessione che tenti di andare oltre i contenuti e la conclusione del percorso stesso. Sicuramente significativo è stato il fatto che il cammino condiviso si sia sviluppato al di fuori della cooperativa sociale, a indicare come sia difficile (e forse per certi versi quasi ritenuto pericoloso), sviluppare ragionamenti con ricadute politiche nell’ambito di realtà che sempre più tendono a qualificarsi come “imprese sociali”, con un particolare accento sul primo termine del binomio. Quando, infatti, ci si confronta sulla declinazione pratica di riflessioni e di condivisioni teoriche, spesso emergono i distinguo, i “teniamo i piedi per terra”, … insomma la sostenibilità economica dell’“impresa sociale”, sembra prevalere su quella che dovrebbe essere la “sostenibilità etica” del lavoro sociale. La salvaguardia delle commesse, degli appalti, la conservazione dei posti di lavoro di soci e dipendenti, pur importante, porta però a mettere in secondo piano la ricerca di soluzioni che rendano effettivi i diritti delle persone (alla vita indipendente, all’autodeterminazione, ad adeguati sostegni nei propri contesti di vita, …), anche attraverso il superamento di alcune tipologie di servizi (RSA, RSD, comunità, case di riposo, …).
Pare doversi rilevare una certa discrepanza da quello che era lo spirito originario e da quelli che erano gli scopi caratterizzanti la cooperazione sociale, declinati nell’articolo 1 della legge 381/91: “Le cooperative sociali hanno lo scopo di perseguire l'interesse generale della comunità alla promozione umana e all'integrazione sociale dei cittadini …”. Bisognerebbe ricordarsi che queste dovrebbero essere le finalità del lavoro di (e in) ogni cooperativa sociale, senza mai abdicare ad un ruolo sociale e politico che, recuperando le lezioni zapatiste e di Danilo Dolci, imporrebbe di domandarsi sempre se un servizio e/o un progetto persegua “l’interesse generale della comunità” attraverso la “promozione umana” e “l’integrazione sociale” delle persone cui è rivolto. Purtroppo sembra che di fronte alla possibilità di gestione di RSA, RSD, CPR, istituti e comunità più o meno virtuose, e di altri progetti/servizi che poco hanno a che fare con “promozione umana” ed “integrazione sociale”, sia sempre più difficile affrontare questa domanda (non solo nel privato, ma anche in ambito pubblico/istituzionale), oscurata da prospettive di affidamento e di fatturato “economicamente interessanti”, che aprono le porte a pericolose derive sostenute dal riferimento ad un presunto “realismo” e, in alcuni casi, da cinici meccanismi di progressiva “banalizzazione del male” che si iniziano ad intravedere nella nostra società e per i quali la pandemia è sembrata essere un grande banco di prova (si veda ad es. "Cura e nuove forme di deumanizzazione nella pandemia").
È possibile che le fatiche che hanno contrassegnato la fase finale del percorso descritto nell’articolo di Animazione Sociale (in allegato) e la sua stessa ripartenza, che ha dovuto virare su obiettivi esterni alla cooperativa, siano anche da leggersi in relazione a questa discrepanza, sempre più marcata e diffusa, tra principi e valori che dovrebbero caratterizzare l’impegno nel sociale ed esigenze emergenziali e/o aziendalistiche dettate da un mercato indifferente all’interesse generale della comunità.
Sembra sempre più in salita e complicata la strada per coloro che (singoli e cooperative) continuano a interrogarsi su questa domanda centrale: stiamo perseguendo la promozione umana e l'integrazione sociale (l'inclusione si direbbe oggi) delle persone? La risposta è da trovarsi insieme a coloro che, a diverso titolo, sono coinvolti nei servizi/progetti (utenti, soci, familiari, comunità, ...) e per chi cerca ancora di impegnarsi nella cooperazione sociale animato dall’imprescindibile riferimento ai diritti, alla giustizia, alla solidarietà e all’umanità, è proprio da qui che si deve provare a ripartire.
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