Autismo, società e alcune riflessioni “resistenti”.

In un articolo pubblicato alcuni anni fa su “Liberation”, si parlava di “Le Papotin”, un giornale la cui redazione si riunisce tutti i mercoledì in un cinema di Parigi ed è costituita da ragazzi e adulti con autismo. Il Papotin “non ha una funzione terapeutica”, riguarda principalmente “il piacere di condividere qualcosa e di essere valorizzati”, in una società che troppo spesso stigmatizza e  discrimina chi non si adegua a modelli e comportamenti proposti (e imposti) come “normali”. Il giornale non ha una cadenza di pubblicazione predefinita, esce solo “quando gli articoli sono pronti”. Anche la prima pubblicazione antifascista italiana, il “Non mollare”, su alcuni numeri del 1925, portava impressa a margine del titolo un’indicazione che ne indicava una periodicità, per certi aspetti, simile: “Esce quando può”. I redattori, tutti antifascisti della prima ora (Salvemini, Rossi, i fratelli Rosselli, …), nel resistere contro la violenza del regime e nel lottare per la libertà di pensiero, sapevano di poter pubblicare e distribuire il proprio bollettino solo clandestinamente e questo non permetteva loro di prevedere come e quando lo avrebbero fatto. Ovviamente l’impossibilità di definire in anticipo la data di uscita delle due pubblicazioni dipende da motivi e avviene in contesti profondamente differenti, tuttavia pare potersi ravvisare una certa continuità nel loro essere “fogli si resistenza” per risvegliare le coscienze e per l’affermazione della libertà e della dignità di ogni persona.
In occasione della "Giornata mondiale per la Consapevolezza sull'autismo", il 2 aprile 2018, credo sia utile proporre tre riflessioni/testimonianze, nate da esperienze di vita e di lavoro differenti, per provare a evidenziare quella che mi sembra una dimensione “resistente” dell’autismo, ben rappresentata dal giornale “Papotin”, rispetto a una tendenza all’iper-specializzazione degli interventi e dei discorsi che lo riguardano e che rischia di smarrire dietro ad uno sguardo sempre più strutturato tecnicamente, l’imprevedibile e irripetibile contributo all’umanità che ognuno di noi rappresenta.

Le prime riflessioni “resistenti” che mi sembra utile riportare sono quelle di Michelle Dawson, una donna con autismo di Montreal, dove vive e lavora come ricercatrice nell’equipe del Dipartimento di neuropsicologia del Professor Laurent Mottron. La Dawson è una persona molto attiva per la difesa dei diritti e dell’identità delle persone con autismo, perché non siano considerate esclusivamente e prioritariamente come malate e/o disturbate, ma principalmente come minoranza culturale. Secondo lei l’autismo dovrebbe essere capito, accolto e messo in condizione di essere se stesso nella società ed è “molto critica verso i metodi comportamentistici che tendono a volere normalizzare e quindi a violare la dignità del soggetto autistico e il suo particolare funzionamento; considera anche eticamente scorretti metodi come l’ABA nella misura in cui trasformano la vita del bambino in un addestramento continuo che non tiene conto del suo linguaggio specifico, del suo modo di comunicare e del suo peculiare funzionamento (come ben descritto nel suo importante saggio The misbehaviour of behaviourists)”. In particolare l’autrice e la sua equipe di ricerca e lavoro, rilevano come rispetto alle persone con autismo vi sia “una differenza fondamentale tra dire che dobbiamo educarli a utilizzare i nostri strumenti culturali per stare nel mondo della maggioranza e dire che dobbiamo trasmetterli questi strumenti ma che li useranno con le loro modalità particolari. Dal punto di vista dell’intervento educativo lo scopo del supporto non è di farli assomigliare ai non autistici, ma di permettere loro di accedere ai materiali che costituiscono la cultura umana nel senso lato, includendo la loro. […] I valori e le pratiche che giustificano la rieducazione sono quelli che permetterebbero alle persone di condurre una vita conforme all’idea che se ne fa la maggioranza. […] Dal nostro punto di vista sarebbe meglio utilizzare un tipo di pedagogia che permetta alla persona autistica in qualche modo di trovare un suo adattamento che non passa per forza tramite l’assimilazione pure semplice dei comportamenti non autistici”.
A tal fine la Dawson suggerisce alcuni punti di cui tenere conto nei diversi interventi, da intendersi come spunto critico e adattabile alle diverse situazioni e non come decalogo indiscutibile:
-tener conto delle caratteristiche comportamentali del bambino autistico (deficit socio comunicativo, interessi percettivi) per lo sviluppo di un approccio educativo centrato sulla persona;
-mettere l’accento sulle capacità e non sui deficit;
-usare un approccio anche di tipo comportamentale ma flessibile in grado di far crescere il livello di abilità del bambino;
-utilizzare l’analisi funzionale per comprendere anche atteggiamenti e comportamenti;
-sviluppare le capacità pratiche verbali e non verbali a livello comunicativo tenendo conto dei meccanismi percettivi e dei vissuti per rafforzare le competenze di gestione dell’interazione;
-modificare l’ambiente, adattarlo ai bisogni e interessi del bambino, aumentare la comprensione reciproca nell’interazione per diminuire i fattori di stress e favorire lo sviluppo degli apprendimenti;
-partire dagli eventi della vita quotidiana perché sono produttori di senso per il bambino e favoriscono l’acquisizione di nuove competenze;
-sapere che le routine e anche i rituali sono importanti perché riducono gli stati di angoscia, tranquillizzano il bambino e favoriscono la sua crescita;
-favorire il più possibile l’interazione con l pari non autistici perché solo così possono vivere le proprie emozioni e organizzare delle strategie per gestirle sentendosi valorizzati;
-strutturare le attività senza cadere nell’ossessione di trasformare tutti momenti della vita del bambino in esercitazione; anche il bambino autistico ha diritto al piacere anche se il modo di viverlo non è quello della maggioranza.

Le seconde riflessioni “resistenti” che mi sembra opportuno riportare sono quelle di Barbara Donville, psicoterapeuta, docente a Parigi all’Hecole des hautes etudes en Sciences Sociales e madre di Robin, un ragazzo con autismo.
La Donville parla direttamente ai famigliari, portando la propria esperienza e proponendo alcune prospettive di vita e lavoro a partire da una presa di posizione molto critica e determinata nei confronti degli specialisti e del sapere tecnico/scientifico che, spesso, anziché aiutare e accompagnare, umilia e opprime: “I genitori si rendono conto che molte cose che sembravano acquisite e che si erano consolidate a un certo punto spariscono. Il bambino disimpara!! Non lo riconoscono, hanno veramente sentimento di trovarsi di fronte a qualcun altro, e il pediatra che lo vede regolarmente non dice nulla, non dà nessuna risposta, se non che è colpa loro e che sono loro ad angosciare il bambino […] Voi che non avete potuto, saputo comprendere che in fondo siamo noi gli esperti di noi stessi, che siamo i soli a poter decidere se ciò che viviamo è felice o infelice, siamo gli unici fondatori del nostro potere. Quando niente di tutto ciò vi è stato rivelato, quando la terribile diagnosi finisce per cadere come un coltello tagliente, e vostro figlio e improvvisamente etichettato, catalogato, vi sentite così esausti, impotenti, sentite di non avere un’altra scelta che sottomettervi al discorso ufficiale e seguire il percorso istituzionale: è l’unica “soluzione” che vi è offerta, quando tutte le porte l’una dopo l’altra si sono richiuse”. La Donville, tuttavia, non si ferma a questa parte maggiormente critica di un certo modo di porsi e intervenire da parte di molti servizi e di specialisti (non di tutti ovviamente), ma cerca di offrire prospettive e speranze: “quando ho preso la decisione di occuparmi da sola di mio figlio, una prima evidenza mi è apparsa: quello che bisognava fare aveva più a che vedere con l’educazione, che non con la rieducazione. Bisognava educare le mancanze, le numerose mancanze, tutti quei piccoli niente che formano tuttavia la personalità dell’uomo e questo fin dalla nascita. In effetti, ad ogni istante nelle mie giornate passate con mio figlio, ero davanti a delle mancanze: mancanza di comprensione e quindi d’iniziativa, mancanza di imitazione e quindi d’interesse per l’ambiente […] La vita con vostro figlio autistico richiede di concepire la vita in un altro modo, perché questo bambino funziona in modo diverso da noi. […] Non bisogna fissare nessun obiettivo immediato a breve termine, ma concepire le cose in un altro modo: non occorre aspettarsi nulla di particolare da una situazione, né dal cammino che farete con vostro figlio. Perché nulla di quello che succederà avrà il volto di quello che avevate immaginato. […] Occorre non portare nessun giudizio sul vostro figlio: con il suo funzionamento particolare, non fa nulla con intenzione, non lo fa mai apposta. Dovete capire che le sue reazioni sono sempre frutto della sua visione locale del mondo che lo circonda. Non dovete neanche giudicare voi stessi: la situazione è difficile complessa. Allora niente eroismo, fate quello che potete, al vostro ritmo, non siete né delle macchine né dei maghi. Fate quello che potete per rispettare voi stessi; e soprattutto non dimenticatevi di voi stessi”.

Le terze riflessioni “resistenti” che vorrei proporre sono quelle del pedagogista Alain Goussot che ha approfondito i contributi della Dawson e della Donville in due suoi libri: “Autismo: una sfida per la pedagogia speciale” (2012), e “Autismo e competenze dei genitori” (2016). 
Il filo invisibile che sembra unire i due testi è la costante ricerca da parte di Goussot di proporre un pensiero aperto sull’autismo al di là di riduzionismi tecnico-scientifici, un pensiero che nasce e si sviluppa nel coinvolgimento, nel confronto e nell’ascolto delle persone con autismo e dei loro famigliari. In particolare Goussot evidenzia come “ogni approccio o trattamento educativo veicola una concezione della società, degli apprendimenti, dei rapporti tra le differenze e della formazione dell’uomo. […] Come si interviene è strettamente collegato a come si guarda, al cosa si vede e alla concezione che si ha dei rapporti tra maggioranza normativa e minoranze, normalità e devianze, patologia e salute. […] Non v’è apprendimento ed educazione possibile senza relazione, senza dimensione emozionale ed affettiva, senza l’attivazione di processi comunicativi. […] Sembra che i vissuti del soggetto autistico non contino, che i suoi sentimenti, e il suo modo di conferire senso a quello che prova nel contatto con chi lo deve educare alle buone maniere, non abbia importanza e sia del tutto secondario rispetto alle performance che deve dimostrare per essere adatto, o meglio adattato al vivere con gli altri. Emozioni, sentimenti, relazioni, modalità comunicative, linguaggi, senso e significato non sembrano dover riguardare il soggetto autistico che deve essere trattato e curato per essere formattato e adattato in modo funzionale a quel che viene considerata come norma”.
Da queste riflessioni Goussot rilancia una prospettiva e un impegno cruciali: “… c’è una dimensione, una sfida etica che riguarda l’impostazione del tipo di intervento che si propone rispetto soggetto autistico. Questa dimensione etica riguarda la dignità del soggetto autistico, la sua integrità come essere diverso dalla maggioranza, e quindi la necessaria tutela del suo diritto di esistere in quanto autistico con il suo modo di essere, cioè con la sua identità culturale. La sfida etica dell’azione pedagogica e quella di garantire i diritti di cittadinanza la persona autistica e di tutelare la sua soggettività in una prospettiva pluralistica della società”.
Proprio su questa idea di società si chiudono le riflessioni di Goussot, riflessioni importanti e umane che, credo, valga la pena riproporre: “… L’idea di un noi come comunità aperta, dialogante accogliente potrebbe esser l’immagine di un noi dove operatori dei servizi, soggetti del cosiddetto terzo settore, famiglie, scuole soggetti autistici formano insieme una comunità dove tutti sono attori-autori di una costruzione comune che valorizza le differenze e le singole storie …”.

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