“Romanista
ebreo”, con questa scritta accompagnata dall’immagine di Anna Frank con una
maglietta della Roma, i tifosi laziali tappezzavano, circa un mese fa, la curva
romanista dello stadio Olimpico della capitale. L’immediata reazione e la condanna
da parte di una buona fetta di società civile della vergognosa iniziativa
antisemita, vedevano i tifosi responsabili giustificare il gesto come espressione
di “goliardia”. Su questa stessa linea pareva porsi il presidente della Lazio
Lotito che, dopo aver espresso in un primo momento la sua indignazione,
successivamente, intercettato telefonicamente, definiva una “pagliacciata” il suo
maldestro ed ipocrita tentativo di riparare all’accaduto andando alla Sinagoga
per ricordare le vittime della Shoah.
Sinisa
Mihajlovic, attuale allenatore del Torino ed ex giocatore della Lazio,
intervistato sull’accaduto rispondeva con un laconico: “Anna Frank? Non so chi
è … sono ignorante in materia”, che il giorno successivo cercava di argomentare
affermando: “penso che non sia così grave non conoscere Anna Frank”.
Pur
non entrando nel merito di questa “reticente” giustificazione, ritengo sia
molto grave non aver condannato i responsabili di un gesto di chiaro carattere
antisemita, che hanno vigliaccamente strumentalizzato la tragica memoria di una
giovane vittima e di uno dei simboli universalmente noti della Shoah.
In
questo caso “Ignorantia non excusat”, principio che vale anche in relazione
alla storia del Torino. Ernő Egri Erbstein, ebreo ungherese, fu, infatti,
l’allenatore che, con il Presidente Ferruccio Novo, contribuì a creare il
Grande Torino, l’undici che dominò il calcio italiano degli anni quaranta e che
ogni tifoso granata ricorda a memoria e con commozione: “Bacigalupo, Ballarin,
Maroso, Grezar, Rigamonti, Castigliano, Menti, Loik, Gabetto, Mazzola, Ossola”.
Erbstein
arrivò al Torino dalla Lucchese (portata dalla serie C al 7° posto in serie A
in tre anni), nella primavera 1938 e allenò la squadra introducendo diverse
innovazioni che avrebbero posto i presupposti per i successi futuri. Nel
gennaio 1939, dopo la promulgazione delle leggi razziali fasciste alcuni mesi
prima, fu costretto a tornare a Budapest con la famiglia, ma il Presidente Novo
continuò a mantenere i contatti con l’allenatore che stimava, sia per aiutarlo
in quel difficile frangente, sia per consultarsi sulla fisionomia della squadra
e sugli acquisti da fare, in particolare quelli di Loik e Mazzola.
Anche
un altro allenatore ebreo ungherese Arpad Weisz, fu costretto ad abbandonare
l’Italia nel 1939, dopo aver vinto uno scudetto con l’Ambrosiana Inter e due
con il Bologna, e lasciandoci quello che forse in Italia è il primo manuale
moderno sul “Gioco del calcio”, scritto nel 1930, con prefazione dell’allenatore
della Nazionale di allora, Vittorio Pozzo. Weisz morirà ad Auschwitz con la
moglie e le due figlie nel 1944. Erbstein ebbe la fortuna di scampare al
genocidio nazista, fuggendo dal campo in cui era stato internato e, dopo la
fine della guerra, il Presidente Novo si adoperò per rintracciarlo e farlo
tornare a Torino in qualità di consulente prima e di direttore tecnico poi. Sotto
la sua supervisione prese corpo la leggenda del Grande Torino, che non si
limitava all’ineguagliabile undici in campo, ma che comprendeva tutto l’assetto
organizzativo della società, dal vivaio ai consulenti e osservatori. Morì
insieme all’indimenticabile squadra nella tragedia aerea di Superga il 4 maggio
1949.
Penso
che di fronte ad ogni forma di antisemitismo al Toro non si dovrebbe poter dire
“Non so”. La condanna dovrebbe risuonare forte chiara e immediata, da parte di
società, allenatore e giocatori granata. Lo impone non solo una cultura di
civiltà, che dovrebbe essere patrimonio comune, ma anche una memoria più intima
che fa parte della nostra storia e che ci fa ancora commuovere nel ricordare Erbstein e il Grande Torino. Per questo ho provato e, dopo un mese in cui ho
atteso invano almeno una dichiarazione riparatoria, provo tuttora un grande
rammarico e una grande vergogna di fronte alle inaccettabili parole dell’attuale
allenatore del Toro e al relativo silenzio della società in cui, oggi, fatico a
riconoscermi come tifoso e sportivo.
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