Salute mentale e cittadinanza nelle parole del Cardinal Martini.

“Le domande più autentiche di un malato psichico, anche se spesso inespresse o negate, non sono diverse da quelle di ciascuno: una casa, degli amici, affetti esclusivi, un lavoro, il denaro per vivere, il divertimento, il diritto di abitare una città, la possibilità di professare un credo religioso, la libertà di parlare ed esprimersi. Le sue fatiche sono invece molto più grandi rispetto a quelle di chi non soffre …”. Con queste parole di rara sensibilità e di grande competenza, il Cardinal Martini affrontava in un Convegno Internazionale del 2002, il tema del rapporto tra salute mentale e cittadinanza. Sembra che il suo discorso, in cui si possono rintracciare diversi contributi “basagliani”, conservi ancor oggi intatto tutto il suo valore, in una società in cui, sempre più, le contraddizioni portate dalla malattia, dalla disabilità, dalla povertà, dalle migrazioni, sono sempre meno assunte e affrontate in un’ottica comunitaria e, troppo spesso, sono addossate alle persone, i cui bisogni rischiano di essere trasformati in colpe.

Il 10 ottobre si è celebrata la giornata mondiale della salute mentale. Per l’occasione il Forum Salute Mentale ha proposto un passaggio del discorso che il Cardinal Martini aveva pronunciato nell’ambito del Convegno internazionale “La cittadinanza è terapeutica. Confronto sulle buone pratiche per la salute mentale”, svoltosi quindici anni prima, nell’aprile 2002, a Milano. In quell’occasione l’Arcivescovo di Milano, tenne un intervento di grande competenza e di rara sensibilità che, mi sembra, conserva ancor oggi intatto tutto il suo valore. Anzi, in questo periodo storico in cui i discorsi “sulla” salute mentale sembrano sempre più risolversi in contrapposizioni politico-ideologiche, spesso relative ad aspetti economico-organizzativi, ripercorrere parole che aiutano a non distogliere lo sguardo dalle persone e dai contesti in cui vivono (e di cui tutti facciamo parte), credo possa essere salutare.
Il Cardinal Martini nel suo discorso, dopo una parte introduttiva, si soffermava su alcune questioni cruciali per la vita di ognuno di noi, che ci accomunano, a prescindere dalla malattia, e da cui partire per stabilire relazioni (“terapeutiche” ma non solo), basate sul rispetto e sul riconoscimento dell’altro: “Le domande più autentiche di un malato psichico, anche se spesso inespresse o negate, non sono diverse da quelle di ciascuno: una casa, degli amici, affetti esclusivi, un lavoro, il denaro per vivere, il divertimento, il diritto di abitare una città, la possibilità di professare un credo religioso, la libertà di parlare ed esprimersi. Le sue fatiche sono invece molto più grandi rispetto a quelle di chi non soffre: le idee possono essere bizzarre e non comprese, le risposte affettive inadeguate, le reazioni inaspettate, la voce per chiedere e rivendicare i propri diritti molto debole. Tante persone affette da disagio psichico riescono a formulare così impulsivamente il loro bisogno di cura e di vicinanza da risultare aggressivi agli occhi degli altri. […] Il sofferente psichico è costretto dalla sua malattia a fare i conti con la fragilità che tutti portiamo dentro: egli in un certo senso ci insegna a dare peso alla tristezza e alla gioia, alla noia e all’attivismo esagerato, all’eccesso di lavoro e al desiderio di averne almeno uno, alla famiglia vissuta come assillante e al senso di abbandono”.
A partire da questa comunanza di sentire, di gioire e di soffrire, il Cardinal Martini restituiva all’intera società la responsabilità e la capacità di contribuire alla “cura” della persona: “La guarigione profonda dell’uomo chiede un prezzo a quella stessa società civile che non ha saputo accoglierlo, perché il benessere di una persona nella collettività è un fatto che investe tutti, che chiede tempo, energie, risorse, attenzione per il suo reinserimento sociale”.
La conclusione dell’intervento era un richiamo a una responsabilità come singoli e come comunità, all’interno sia dei contesti terapeutici sia, soprattutto, di quelli “cittadini” e comuni: “Siamo chiamati a immaginare e quindi a realizzare nella concretezza il profilo di una città abitabile, dove non ci si senta indotti a vivere la paura dell’altro ma se mai la gioia dell’incontro e il desiderio di sperimentare relazioni positive”.
Credo che nell’odierna situazione della Psichiatria, ricordare le parole del Cardinal Martini, in cui non è difficile rintracciare diversi contributi “basagliani”, possa rappresentare, almeno in parte, un’occasione per non dimenticare sia la centralità della partecipazione delle persone con disturbo mentale alla costruzione dei propri percorsi di vita, sia il loro valore nel ricordarci le nostre fragilità in una società in cui, sempre più, le contraddizioni portate dalla malattia, dalla disabilità, dalla povertà, dalle migrazioni, sono sempre meno assunte e affrontate in un’ottica comunitaria e, troppo spesso, sono addossate alle persone, i cui bisogni rischiano di essere trasformati in colpe.
Di seguito l’intervento completo del Cardinal Martini.

CONVEGNO INTERNAZIONALE – LA CITTADINANZA E’ TERAPEUTICA
CONFRONTO SULLE BUONE PRATICHE PER LA SALUTE MENTALE
(Arcivescovo Cardinale Carlo Maria Martini, Milano, 15-17 aprile 2002)

Saluto anzitutto cordialmente il dott. Benedetto Saraceno, l’On. Tiziana Maiolo, e don Virginio Colmegna, rappresentanti dei tre enti che promuovono queste giornate di convegno: l’Organizzazione Mondiale della Sanità, il Comune di Milano e la Caritas Ambrosiana.
Si intende mettere a tema la salute mentale e suscitare un confronto sulle buone pratiche della psichiatria con un respiro mondiale e dunque attenti alle ricchezze e alle peculiarità dei diversi Paesi, guardando alla vita delle nostre città che nella metropoli milanese possono riconoscersi, valorizzando l’esperienza di realtà che si inseriscono nella rete della collaborazione sulla psichiatria con un’attenzione specifica ai più poveri. 
Saluto di cuore tutti i relatori, gli esperti già presenti al tavolo e gli esperti che prenderanno parola in questi tre giorni, con particolare gratitudine per coloro che provengono da più lontano.
Saluto poi tutti i presenti, operatori della psichiatria, familiari, volontari che prestano la loro opera accanto ai sofferenti psichici, cittadini attenti alle problematiche connesse con la salute mentale.

Scorrendo il programma di queste giornate, sono colpito dall’intreccio di numerose tematiche, di differenti culture e stili comunicativi, di varie competenze che esso esprime e rappresenta.
Contenuti prettamente clinici – i diversi metodi della cura, le riflessioni su cosa può dirsi terapeuticamente efficace, i contesti e le persone che devono interagire per affrontare al meglio la malattia –si intrecciano con temi che più diffusamente riguardano il benessere dei singoli e l’armonia di una collettività.
Intendete parlare infatti di cittadinanza, di diritti che vanno riconosciuti a ciascuno, di “buone pratiche”, utilizzando una espressione che sottolinea non solo l’efficacia terapeutica, ma anche la bontà di un agire carico di tensione etica, con l’intento di favorire uno stato di bene per la persona che non si compone solo dell’assenza di malattia mentale.
Risuonano poi nei titoli dei vari interventi i richiami alle situazioni socio-politiche segnate dal conflitto, alla multiculturalità, al rispetto dell’infanzia e dell’adolescenza, alla produzione di buone leggi per la salute mentale, al superamento di schemi rigidi che chiudono la malattia nei grandi istituti o in catene e costrizioni piuttosto che consentire ai malati di abitare la loro città.
Si intrecciano poi le potenzialità incalcolabili della cultura, della tradizione di cura, della riflessione di almeno 12 Paesi del mondo, rappresentati da diverse figure professionali e non professionali giunte a questo convegno per raccontare come ci si fa custodi della salute mentale nel proprio territorio. Traspare l’intenzione di valorizzare il racconto competente e la capacità di ascoltare con calma, superando la fatica della lingua, cogliendo gli elementi di novità e le sfumature del pensiero che sottende l’agire, cogliendo i rimandi all’operare quotidiano sia di chi racconta che di chi ascolta.
C’è infine l’intreccio di ruoli e funzioni che compongono la rete territoriale per la salute mentale, qui rappresentati da una platea numerosa e motivata: operatori del sociale, clinici, familiari, volontari, cittadini.
Si dispiega, insomma, ai miei occhi un’enorme complessità e colgo con piacere questo come uno dei messaggi centrali che state comunicando. L’ottica della complessità permette di avvertire il fascino delle tematiche che si riferiscono alla salute della mente, e quindi di continuare a cercare per capire, per fare, per cambiare. Tale ottica permette anche di non cedere alla tentazione del semplicismo di fronte al dramma della sofferenza mentale, talvolta così lacerante per la persona, per la famiglia, per il contesto comunitario.
Se non ci disponiamo ad essere realmente ricercatori del senso di ciò che la follia suscita in noi, rischiamo di enucleare solo problemi superficiali, di separare ed espellere, di semplificare una materia per sua natura ricca di contraddizioni.

Volendo offrire una qualche riflessione introduttiva , a partire da ciò che mi è più familiare, cioè la Bibbia, vorrei richiamare un episodio narrato nel Vangelo di Marco (Mc 5, 1-20). Un uomo della città di Gerasa dai comportamenti bizzarri, indubbiamente inquietanti ed autoaggressivi (percuoteva se stesso con delle pietre) era stato relegato dalla sua comunità in un luogo di morte. Non poteva che vagare tra le tombe, lontano da esseri vivi, quasi a rappresentare quel potenziale di rabbia e di stranezza che tutti vivevano come mortifero e che per questo poteva, se pure illusoriamente, essere collocato lontano dalla vita ordinaria.
Gesù si lascia avvicinare da questo strano personaggio angosciato ed impetuoso e gli chiede il nome, potremmo dire che comincia dal tentativo di riconoscimento della sua identità personale, non fuggendo dalla tensione che si genera nell’incontro con la sofferenza dell’altro.
“Il mio nome è Legione perché siamo molti”, risponde l’uomo rivelando una scissione che non gli permettere di esprimersi in modo chiaro ed accettato da tutti, che non gli consente il gusto della relazione. Gesù sta con lui e fa qualcosa per lui: questo trasforma la sua vita.
Viene in mente l’utilizzo corretto e competente dello strumento del colloquio, ovvero di quello specifico momento clinico nel quale lo psicoterapeuta, lo psichiatra, lo psicologo, l’educatore, l’infermiere, l’assistente sociale, il terapista della riabilitazione instaurano una relazione personale con la persona sofferente e sanno partire dal suo nome per costruire con lui un progetto di cura che tenga conto della sua singolarità, non principalmente dei modelli teorici, delle linee guida, delle scuole di pensiero.
Nel colloquio avviene l’incontro tra almeno due persone che si svelano reciprocamente, l’una col bisogno di stare bene, l’altra col bisogno di capire ed aiutare. E’ il luogo dove colui che si prende cura, affina la capacità di “prescrivere se stesso come farmaco” (Balint), mettendosi in gioco con i suoi pensieri ed i suoi sentimenti.
Ci si pone accanto alla persona sofferente come possibili “custodi del segreto” nell’ascolto del mondo intimo dell’altro, lacerato da blocchi e contraddizioni, ma anche incredibilmente provocatorio nei confronti del curante. Nel colloquio, ciascuna delle persone coinvolte è come portata ad entrare nel mistero dell’altro - perché anche il malato mentale comprende molte cose intime dell’operatore che si avvicina a lui - e non può abdicare alla questione del senso (Angelini).
Le domande più autentiche di un malato psichico, anche se spesso inespresse o negate, non sono diverse da quelle di ciascuno: una casa, degli amici, affetti esclusivi, un lavoro, il denaro per vivere, il divertimento, il diritto di abitare una città, la possibilità di professare un credo religioso, la libertà di parlare ed esprimersi. Le sue fatiche sono invece molto più grandi rispetto a quelle di chi non soffre: le idee possono essere bizzarre e non comprese, le risposte affettive inadeguate, le reazioni inaspettate, la voce per chiedere e rivendicare i propri diritti molto debole. L’uomo di Gerasa desidera andare verso Gesù, ma le sue parole risuonano come una minaccia e non come una richiesta di aiuto. Tante persone affette da disagio psichico riescono a formulare così impulsivamente il loro bisogno di cura e di vicinanza da risultare aggressivi agli occhi degli altri.
Eppure c’è in questa aggressività una domanda e una espressione di disagio profondo, che un grande conoscitore del cuore umano esprime così: “Un laccio interno, prodottosi dalla parte sensitiva dell’animo, avvolge tutto ciò che altrimenti scatta in libertà, e si muove e opera senza impacci. Tutto diviene stanco, indifferente. L’uomo non padroneggia più la sua vita” (Guardini).
E un altro scrutatore del disagio intimo della persona qualificava questa situazione così:“Situazione tremenda, quella di una coscienza che abbia subito, fin dall’infanzia, una compressione tale che tutta l’elasticità dell’anima e tutta l’energia della libertà non riescano più a scrollarla” (Kierkegaard)
Nessuno di noi sarebbe disposto a perdere l’energia della libertà, perché è la connotazione più alta del nostro essere uomini. Eppure nella follia è contenuta una domanda radicale: esiste una forza che può “avvolgere tutto ciò che altrimenti scatta in libertà?”
Ci chiediamo se possa esprimere libertà una persona che abbia la mente, il cuore, le relazioni sociali, le azioni quotidiane pervase dalla malattia. L’esperienza della vita insegna che il rapporto quotidiano, accogliente, affettuoso con chi soffre di disturbo psichico può aiutare gradualmente ad affrontare questa domanda, ad averne meno paura, fino a scoprire che nelle forme della sofferenza psichica – l’ansia, la depressione, l’eccitazione, l’ossessività, il delirio – è contenuto un ampliamento di noi stessi. Il sofferente psichico è costretto dalla sua malattia a fare i conti con la fragilità che tutti portiamo dentro: egli in un certo senso ci insegna a dare peso alla tristezza e alla gioia, alla noia e all’attivismo esagerato, all’eccesso di lavoro e al desiderio di averne almeno uno, alla famiglia vissuta come assillante e al senso di abbandono.
Egli conosce le tinte forti del vivere, sperimenta le amplificazioni di una fatica esistenziale che è anche la nostra.
La questione della libertà si pone in modo bruciante per una città quando essa diventa teatro di un fatto sconcertante, drammatico, dove una persona innocente viene uccisa per un gesto che sembra compiuto da una persona psichicamente malata, ma in un contesto che tutti continuano a definire “normale”, nel quale non si riescono a delineare, almeno in una prima e sommaria rappresentazione mentale, quali siano i limiti tra mancanza di controllo del pensiero o degli impulsi e libertà di compiere il male. Si genera tra la gente un comprensibile sconcerto, si preferisce fare diagnosi di pazzia piuttosto che dover ammettere che un grande potenziale di conflittualità esasperata, di violenza, di cultura della morte è collocata proprio in mezzo a noi, nelle pieghe della quotidianità.

L’uomo di Gerasa viene guarito non solo attraverso la relazione personale, ma anche grazie ad un’azione sociale, che l’evangelista racconta con tratti pittoreschi: Gesù ordina agli spiriti immondi di uscire da quell’uomo e gli spiriti stessi lo supplicano di non scacciarli dal paese, così che vengono fatti entrare in una mandria di duemila porci e immediatamente l’intera mandria si precipita nel mare.
La guarigione profonda dell’uomo chiede un prezzo – duemila animali sono una ricchezza non indifferente - a quella stessa società civile che non ha saputo accoglierlo, perché il benessere di una persona nella collettività è un fatto che investe tutti, che chiede tempo, energie, risorse, attenzione per il suo reinserimento sociale.
Se da un lato si attesta una crescente vulnerabilità psichica dell’uomo contemporaneo, come rivelano le percentuali in aumento delle persone con malattie psicosomatiche che si rivolgono al medico di base (Angelini), dall’altra oggi più di ieri è difficile “socializzare” una malattia, particolarmente una malattia mentale. Il contesto sociale che può molto per contribuire alla cura, diventa spesso luogo ostile, dove si annidano pregiudizi, paure, disinformazione.
Siamo chiamati ad immaginare e quindi a realizzare nella concretezza il profilo di una città abitabile, dove non ci si senta indotti a vivere la paura dell’altro ma se mai la gioia dell’incontro e il desiderio di sperimentare relazioni positive.
Un’attenta educazione al senso del bene comune ed al valore della partecipazione sociale può contribuire in modo decisivo alla costruzione di una metropoli da abitare, dove la cittadinanza intesa come appartenenza attiva alla città (Pizzolato) sia terapeutica perché fonte di benessere per tutti.
Una città vivibile è anche una città coraggiosa, che affronta le sfide della presenza multietnica e multireligiosa, che riflette sulle vite clandestine, sulle vite senza dimora, sulle vite condotte per la strada e segnate dall’abuso di alcool e sostanze, sulle vite spezzate da una solitudine molto profonda, sulle vite che sfuggono da paesi di orribile guerra come a vite che invocano istanze di giustizia, di intelligente solidarietà, di speranza in un futuro possibile.

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