Gli Ebrei e il loro “istintivo impulso” nel “trafficare, imbrogliare, …”. I Gesuiti rileggono Primo Levi.

La Civiltà Cattolica, noto periodico dei gesuiti, propone, in un recente articolo, una particolare rilettura di Primo Levi, da cui emergerebbe un giudizio dell'autore sulla solidarietà ebraica come caratterizzata da un istintivo impulso e abilità "nel trafficare, imbrogliare, trarre ogni situazione a proprio vantaggio". Difficile attribuire tale giudizio, che richiama alla memoria alcune considerazioni sugli ebrei comparse sulla rivista in passato, a chi così ammoniva il lettore: "occorre però affermare con forza che davanti a casi umani come questi è imprudente precipitarsi a emettere un giudizio morale".

Nel numero 4006 del 20 maggio 2017 della Civiltà Cattolica, la nota rivista dei Gesuiti e per molto tempo (forse ancor oggi) voce ufficiosa del Vaticano, è stato pubblicato un articolo del gesuita Giancarlo Pani, intitolato “Primo Levi, «Martire» della «Shoah»”. Un passaggio dello scritto, relativo alle presunte considerazioni di Levi sulla “vita” nel Lager, colpisce particolarmente: “Molta franchezza si rivela nel presentare in quel contesto la solidarietà ebraica, ma anche l’istintivo impulso e l’abilità di questa nel trafficare, imbrogliare, trarre ogni situazione a proprio vantaggio”.
Pur senza addentrarsi nell’analisi complessiva dell’articolo, particolare nella sua “architettura”, è quantomeno doveroso provare a riproporre alcune riflessioni del chimico e scrittore torinese sull’argomento.
Nel capitolo di Se questo è un uomo intitolato “I sommersi e i salvati”, Levi poneva la questione riguardante i rapporti e la solidarietà tra prigionieri (non solo ebrei) all’interno del Lager, nei seguenti termini: “Se i sommersi non hanno storia, e una sola e ampia è la via della perdizione, le vie della salvazione sono invece molte, aspre ed impensate. La via maestra, come abbiamo accennato, è la Prominenz. «Prominenten» si chiamano i funzionari del campo, […] I prominenti ebrei costituiscono un triste e notevole fenomeno umano. […] Essi sono il tipico prodotto della struttura del Lager tedesco: si offra ad alcuni individui in stato di schiavitù una posizione privilegiata, un certo agio e una buona probabilità di sopravvivere, esigendone in cambio il tradimento della naturale solidarietà con i loro compagni, e certamente vi sarà chi accetterà”.
Anni dopo nel suo ultimo libro I sommersi e i salvati, che prende il nome proprio dal capitolo in precedenza citato, tornando sull’argomento Levi affermava: “Prima di discutere partitamente i motivi che hanno spinto alcuni prigionieri a collaborare in varia misura con l’autorità dei Lager, occorre però affermare con forza che davanti a casi umani come questi è imprudente precipitarsi a emettere un giudizio morale”. Levi, inoltre, chiariva un aspetto non secondario del suo discorso, ossia il fatto che comportamenti meschini e/o virtuosi nel Lager, non erano “razzialmente” caratterizzati: “Beninteso, sarebbe iniquo attribuire questa acquiescenza a qualche particolarità specificamente ebraica: delle Squadre Speciali fecero parte anche prigionieri non ebrei, tedeschi e polacchi, […] ed anche prigionieri di guerra russi, che i nazisti consideravano solo di uno scalino superiori agli ebrei. Furono pochi, perché ad Auschwitz i russi erano pochi […] ma non si comportarono in modo diverso dagli ebrei”.
Pare difficile ritrovare negli scritti di Levi un accenno a una particolare solidarietà ebraica, che sarebbe contraddistinta da un istintivo impulso e abilità “nel trafficare, imbrogliare, trarre ogni situazione a proprio vantaggio”, anzi tale concetto sembra estraneo, se non antitetico, alle sue riflessioni.
Tuttavia, forse, tale pensiero è possibile ritrovarlo in un testo di cui però Levi fece solo l’introduzione, probabilmente con molta difficoltà e molti dubbi: “Di solito, chi accetta di scrivere la prefazione di un libro lo fa perché il libro gli sembra bello: gradevole da leggersi, di nobile livello letterario, tale da suscitare simpatia o almeno ammirazione per chi lo ha scritto. Questo libro sta all'estremo opposto”. Con queste parole Levi presentava, infatti, l’autobiografia di Rudolf Hoss, SS e gerarca nazista che, dopo aver ricoperto incarichi direttivi nei campi di Dachau e Sachsenhausen, venne nominato, come riporta il titolo del libro stesso, Comandante ad Auschwitz. Le considerazioni di Hoss sugli ebrei nel Lager, sono del seguente tenore: “[…] sapevano difendersi a modo loro, cioè al modo tipicamente ebraico della corruzione dei compagni di prigionia. […] le persecuzioni più gravi erano dovute ai loro stessi compagni di razza, sia che fossero loro superiori nel lavoro, sia che fossero gli anziani di baracca.  […] Sachsenhausen era stata immune dagli ebrei: ora, d'improvviso, una vera invasione semita. Fino allora, la corruzione a Sachsenhausen era sconosciuta; ora si manifestò in tutte le forme, in tutti i campi”.  In queste “nefandezze raccontate con una ottusità burocratica che sconvolge” è possibile ritrovare riferimenti compatibili con il “trafficare, imbrogliare, trarre ogni situazione a proprio vantaggio”. Queste, però, sono le riflessioni di “un furfante stupido, verboso, rozzo, pieno di boria, ed a tratti palesemente mendace”, non dovrebbero più esser nemmeno lontanamente richiamate, soprattutto su un periodico come “La Civiltà Cattolica” che, purtroppo, negli stessi anni in cui si ponevano le basi per lo sterminio degli ebrei, li qualificava come “un elemento perturbatore per il loro spirito di dominazione e la loro preponderanza rivoluzionaria”.