In occasione delle
celebrazioni per la ricorrenza degli ottant'anni dalla morte di Antonio Gramsci
l’Osservatore Romano ha pubblicato un articolo che offre una versione
particolarmente originale se non "revisionista" del suo pensiero.
Secondo l'autore religione, Chiesa e Gesuiti rappresenterebbero riferimenti
costanti e stimati del pensiero gramsciano e dello spirito liberal-democratico
che ne anima i Quaderni. Tesi suffragate da stralci di paragrafi incompleti.
Chissà cosa ne penserebbe Gramsci. Forse liquiderebbe semplicemente l’articolo
come “Documento stupefacente davvero di gesuitismo e di bassezza morale”.
Sono trascorsi
ottant’anni dalla morte di Antonio Gramsci il 27 aprile del 1937. Tra i diversi
articoli pubblicati dai quotidiani per celebrare la ricorrenza, quello di
Franco Lo Piparo, intitolato “Per Gramsci la religione è necessaria” e
pubblicato dall’Osservatore Romano, offre una versione del pensiero
gramsciano particolarmente “originale”, se non “revisionista”, della quale
sembra opportuno tentare di bilanciare affermazioni e tesi, che appaiono
forzature improprie e, a tratti, irrispettose.
Lo
Piparo avvia il suo discorso evidenziando come per Gramsci la religione sia «un
bisogno dello spirito», specificando, quindi, come non sia “né l’oppio dei
popoli e nemmeno una sovrastruttura destinata a collassare una volta cambiato
l’assetto socio-economico su cui si regge”. Tale bisogno dello spirito, secondo
l’autore, è confermato dal fatto che “non esistono società dove non venga
praticata una religione”. Questa premessa necessaria (“Questo è solo un punto
di partenza”) è, in seguito, ulteriormente sviluppata: “Se le religioni si
fondano sulla fede (e così stanno le cose), le religioni-fede non sono un
fattore aggiuntivo, anche se ineliminabile, delle società umane ma il cemento
strutturale necessario che fa di una molteplicità d’individui un gruppo sociale
coeso”. A questo punto s’inserisce una dotta digressione sul significato della
parola “fede” che: “indica lo stato d’animo di chi ha fiducia in qualcuno o
qualcosa perché è persuaso, per un qualche motivo, della sua verità e/o
giustezza. La pístis-fede ha quindi a che fare con la persuasione e la
credenza. «Essere persuaso che...» ha lo stesso significato di «credere
che...». Non a caso i fedeli sono anche credenti. Con questo senso Gramsci usa
la parola fede nei Quaderni”.
L’autore,
quindi, dopo aver chiarito, dal proprio punto di vista, quest’aspetto del
pensiero gramsciano, sviluppa la tesi che intende dimostrare nel suo articolo:
“Sulla fede-fiducia in determinati valori culturali e nelle istituzioni che li
incarnano poggia il potere invisibile che ciascuno di noi si porta dentro e che
ci fa agire in un modo e non in un altro perché fortemente persuasi che sia
giusto comportarsi in quel modo. Questo potere invisibile il Gramsci giovane lo
chiamava prestigio e, nei Quaderni, lo chiamerà egemonia”.
Approfondendo
ulteriormente il punto e costruendo un’interpretazione “originale” e
“trascendente” del concetto di egemonia che Gramsci avrebbe ammirato nel
modello ecclesiastico, consolidatosi, in particolare, grazie alle capacità dei
gesuiti, l’autore presenta il cuore della sua tesi: “La Chiesa cattolica è
assunta nei Quaderni come esempio paradigmatico di fede-egemonia ben
riuscita. Sono molte le pagine in cui l’argomento viene trattato. I punti forti
del successo sono fondamentalmente due, tra loro complementari. L’alto livello
della elaborazione teorica non è disgiunto dalla capacità politica di tradurre
in apparati culturali popolari la teoria. Le figure fondanti della Chiesa sono
due: Cristo generatore di una nuova e rivoluzionaria Weltanschauung, san Paolo
organizzatore della Weltanschauung. «Essi sono ambedue necessari nella stessa
misura e però sono della stessa statura storica. Il Cristianesimo potrebbe
chiamarsi, storicamente, cristianesimo-paolinismo e sarebbe l’espressione più
esatta» (Quaderno 7)”.
La
Chiesa cattolica, secondo Lo Piparo, ha le capacità e le competenze necessarie
a far convivere “i suoi intellettuali e il popolo dei credenti”, come, a suo
dire, confermato dalle parole di Gramsci stesso: «La forza delle religioni e
specialmente della chiesa cattolica è consistita e consiste in ciò che esse
sentono energicamente la necessità dell’unione intellettuale di tutta la massa
“religiosa” e lottano perché gli strati intellettualmente superiori non si
stacchino da quelli inferiori. La chiesa romana è stata sempre la più tenace
nella lotta per impedire che “ufficialmente” si formino due religioni, quella
degli “intellettuali” e quella delle “anime semplici”. (…) risalta la capacità
organizzatrice nella sfera della cultura del clero e il rapporto astrattamente
razionale e giusto che nella sua cerchia la chiesa ha saputo stabilire tra
intellettuali e semplici. I gesuiti sono stati indubbiamente i maggiori
artefici di questo equilibrio» (Quaderno 11)”. A questo “successo
ecclesiastico” si contrapporrebbe l’incapacità delle filosofie immanentiste
che, secondo l’autore “hanno provato a seguire l’esempio della Chiesa ma hanno
fallito”, affermazione anche in questo caso supportata dalle parole di Gramsci:
«Una delle maggiori debolezze delle filosofie immanentistiche in generale
consiste nel non aver saputo creare una unità ideologica tra il basso e l’alto,
tra i “semplici” e gli intellettuali»”.
La
conclusione, in linea con gli argomenti sviluppati nell’articolo, sembra
coronare questo esercizio di rivisitazione del pensiero gramsciano, lasciando
al lettore alcuni interrogativi di cui si può intravedere la possibile
soluzione: “Sorgono delle domande che Gramsci non pone. […] E se il fallimento
egemonico delle filosofie immanentiste nascesse dalla presunzione di occupare
un terreno che non appartiene a loro? Gramsci questo non lo dice ma non è
incompatibile con lo spirito liberal-democratico che anima i Quaderni”.
Provando,
però, a ricollocare le citazioni gramsciane nel loro contesto di appartenenza,
le cose sembrano apparire sotto una prospettiva “leggermente” diversa, anche
solo limitandosi alla presentazione dei due paragrafi più diffusamente
riportati nell’articolo (con esclusione delle note e/o rimandi ed evidenziando
in grassetto le parti citate).
Il
primo brano è tratto dal Quaderno 7 paragrafo 33:
“Marx
è un creatore di Weltanschauung, ma quale è la posizione di Ilici [Lenin ndc]?
È puramente subordinata e subalterna? […] Fare un parallelo tra Marx e Ilici
per giungere a una gerarchia è stolto e ozioso: esprimono due fasi:
scienza-azione, che sono omogenee ed eterogenee nello stesso tempo. Così,
storicamente, sarebbe assurdo un parallelo tra Cristo e S. Paolo:
CristoWeltanschauung, S. Paolo organizzazione, azione, espansione della
Weltanschauung: essi sono ambedue necessarii nella stessa misura e però
sono della stessa statura storica. Il Cristianesimo potrebbe chiamarsi,
storicamente, cristianesimopaolinismo e sarebbe l’espressione più esatta (solo
la credenza nella divinità di Cristo ha impedito un caso di questo genere, ma
questa credenza è anch’essa solo un elemento storico, e non teorico)”.
Evidenziando
il solo pezzo citato si stravolge un po’ il senso intero del discorso, che
concerne la stoltezza e all’inutilità dei tentativi di fare paralleli e gerarchie
tra Marx e Lenin, come lo sarebbe farlo tra due figure come Gesù e San Paolo,
rappresentando i primi (Gesù e Marx) la Weltanschauung, i secondi (San Paolo e
Lenin) l’azione, tanto che sarebbe più corretto parlare di
cristianesimo-paolinismo (riecheggiando il “marxismo-leninismo”) se non fosse
per la “credenza” che, secondo Gramsci, è solo di carattere storico e non
teorico, nella divinità di Gesù. Per quanto riguarda il riferimento alla
“credenza”, inoltre, è opportuno riportare come Gramsci ritenesse che:
“probabilmente dal punto di vista della credenza religiosa, è poi vero che il
cattolicismo si è ridotto in gran parte a una superstizione di contadini, di
ammalati, di vecchi e di donne” (Q.14 § 55).
Il
secondo brano è tratto dal Quaderno 11 nota IV:
“La
filosofia è un ordine intellettuale, ciò che non possono essere né la religione
né il senso comune. […] La filosofia è la critica e il superamento della
religione e del senso comune e in tal senso coincide col «buon senso» che si
contrappone al senso comune. […] Ma a questo punto si pone il problema
fondamentale di ogni concezione del mondo, di ogni filosofia, che sia diventata
un movimento culturale, una «religione», una «fede», cioè che abbia prodotto
un’attività pratica e una volontà e in esse sia contenuta come «premessa»
teorica implicita […], cioè il problema di conservare l’unità ideologica in
tutto il blocco sociale che appunto da quella determinata ideologia è cementato
e unificato. La forza delle religioni e specialmente della chiesa
cattolica è consistita e consiste in ciò che esse sentono energicamente la
necessità dell’unione dottrinale di tutta la massa «religiosa» e lottano perché
gli strati intellettualmente superiori non si stacchino da quelli inferiori. La
chiesa romana è stata sempre la più tenace nella lotta per impedire che
«ufficialmente» si formino due religioni, quella degli «intellettuali» e quella
delle «anime semplici». Questa lotta non è stata senza gravi
inconvenienti per la chiesa stessa, ma questi inconvenienti sono connessi al
processo storico che trasforma tutta la società civile e che in blocco contiene
una critica corrosiva delle religioni; tanto più risalta la capacità
organizzatrice nella sfera della cultura del clero e il rapporto astrattamente
razionale e giusto che nella sua cerchia la chiesa ha saputo stabilire tra
intellettuali e semplici. I gesuiti sono stati indubbiamente i maggiori
artefici di questo equilibrio e per conservarlo essi hanno impresso
alla chiesa un movimento progressivo che tende a dare certe soddisfazioni alle
esigenze della scienza e della filosofia, ma con ritmo così lento e metodico
che le mutazioni non sono percepite dalla massa dei semplici, sebbene esse
appaiano «rivoluzionarie» e demagogiche agli «integralisti».
Una
delle maggiori debolezze delle filosofie immanentistiche in generale consiste
appunto nel non aver saputo creare una unità ideologica tra il basso e l’alto,
tra i «semplici» e gli intellettuali. Nella storia della civiltà
occidentale il fatto si è verificato su scala europea, col fallimento immediato
del Rinascimento e in parte anche della Riforma nei confronti della chiesa
romana. […] Si ripresentava la stessa quistione già accennata: un movimento
filosofico è tale solo in quanto si applica a svolgere una cultura specializzata
per ristretti gruppi di intellettuali o è invece tale solo in quanto, nel
lavoro di elaborazione di un pensiero superiore al senso comune e
scientificamente coerente non dimentica mai di rimanere a contatto coi
«semplici» e anzi in questo contatto trova la sorgente dei problemi da studiare
e risolvere? Solo per questo contatto una filosofia diventa «storica», si
depura dagli elementi intellettualistici di natura individuale e si fa «vita»”.
Il
tentativo di Gramsci di capire come permettere la critica e il superamento
filosofico del senso comune e della religione, si traduce nella proposta di una
filosofia capace di rimanere a contatto con “i semplici”, e di trovare in
questo contatto la radice delle proprie riflessioni facendosi, così, vita.
Questa proposta passa attraverso l’analisi critica dell’organizzazione
ecclesiastica e lo smascheramento di alcune “strategie” che hanno permesso la
conservazione del potere religioso soprattutto per opera dei gesuiti.
Nell’interpretazione di Lo Piparo quest’ultimo aspetto è serenamente cancellato
e, addirittura, quasi trasformato in un elogio della Compagnia di Gesù. Tesi
difficilmente sostenibile anche solo ripercorrendo alcuni passaggi dei
Quaderni. Parlando di letteratura popolare, ad esempio, Gramsci afferma “come ci
sia ormai una rottura profonda tra la religione e il popolo, che si trova in
uno stato miserrimo di indifferentismo e di assenza di vita spirituale: la
religione è solo una superstizione, ma non è stata sostituita da una nuova
moralità laica e umanistica per l’impotenza degli intellettuali laici […] La
religione si è combinata col folklore pagano ed è rimasta a questo stadio” (Q3
§63).
Inoltre,
affrontando un tema per molti aspetti attuale, ossia i rapporti tra
cristianesimo, Islam e civiltà moderna, Gramsci, problematizzando i rapporti
tra Chiesa e capitalismo, evidenzia come “Il Vaticano stesso si accorge come
sia contradditorio voler introdurre il cristianesimo nei paesi orientali in cui
viene introdotto il capitalismo: gli orientali ne vedono l’antagonismo che nei
nostri paesi non si vede perché il cristianesimo si è adattato molecolarmente
ed è diventato gesuitismo, cioè una grande ipocrisia sociale: da ciò le
difficoltà dell’opera delle missioni e lo scarso valore delle conversioni,
d’altra parte molto limitate” (Q2 §90).
Pare
evidente che, nel pensiero di Gramsci, il binomio chiesa/gesuiti è
costantemente accompagnato non da ammirazione, bensì da riprovazione per la
grande ipocrisia sociale in cui si è trasformato il cristianesimo. Alla luce di
questa prospettiva, inoltre, bisognerebbe valutare anche l’attenzione per la
rivista dei gesuiti “La Civiltà Cattolica”. Diversamente, rischiano di apparire
non solo parziali, ma anche strumentali, alcune citazioni dell’interesse di
Gramsci per il periodico, seppur probabilmente fatte in buona fede, come quella
dell’attuale direttore dello stesso, Antonio Spadaro, che, nel presentare un
articolo commemorativo del Corriere della Sera (in cui si afferma
“Gli uomini di cultura hanno sempre fatto un gran conto di Civiltà
Cattolica, lodandone la tenuta e il rigore di scrittura anche quando ne
combattevano le idee. Antonio Gramsci nei Quaderni del Carcere ne fa
un continuo uso”), scrive quanto segue: “Antonio Gramsci - di cui oggi
ricorrono gli 80 anni dalla scomparsa - è stato un critico ma attento lettore
de "La Civiltà Cattolica". Nei “Quaderni del Carcere”, Gramsci cita
157 volte la nostra rivista, che è stata sempre un punto di riferimento per
tutto il mondo della cultura. Come ha spiegato Luigi Accattoli, in occasione
dell'uscita del quaderno numero 4000”.
Se,
infatti, per Gramsci si trattava di “riferimento culturale”, bisognerebbe
ricordare che lo era relativamente a una forma di cultura da stigmatizzare e in
cui: “la libertà creatrice è sparita, rimane l’astio, lo spirito di vendetta,
l’accecamento balordo. Tutto diventa pratico, inconsciamente, tutto è
«propaganda», è polemica, è negazione, ma in forma meschina, ristretta,
gesuitica appunto” (Q3 §41). Tali convinzioni si traducevano anche
nell’appellativo “nipotini di padre Bresciani” (uno dei principali padri
fondatori e scrittori de La Civiltà Cattolica), che Gramsci usava per riferirsi
a giornalisti e/o scrittori, quando il loro operato e il loro stile era
conforme a tale cultura.
Chissà
se Gramsci avrebbe riconosciuto in Lo Piparo un “nipotino di Padre Bresciani” e
se avrebbe definito il suo articolo come: “Documento stupefacente davvero di
gesuitismo e di bassezza morale” (Q5 §66). Non lo sappiamo ma, forse, questa
possibilità “non è incompatibile con lo spirito che anima i Quaderni”.
Concludendo,
sarebbe interessante sapere come, da linguista qual è, Lo Piparo (e perché no,
magari anche Spadaro), interpreta e integra nelle sue riflessioni un
interessante e rilevante quesito di Gramsci: “Il motto della «Civiltà
Cattolica»: «Beatus populus cuius Dominus Deus eius». (Ps. 143, 15). Gli
scrittori della rivista traducono così: «Beato il popolo che ha Dio per suo
Signore». Ma è esatto? La traduzione è questa: «Beato il popolo che ha per
signore il proprio Dio». Cioè il motto riproduce l’esaltazione della nazione
ebrea e del Dio nazionale ebraico che ne era il Signore. Ora la «Civiltà
Cattolica» vuole chiese nazionali, come è implicito nel motto?”