Di
fronte alla crescente iper-specializzazione di tecnici e servizi che si
occupano di autismo, non si corre forse il rischio di sacrificare sull’altare
della scientificità, la riflessione sulla dimensione etica che dovrebbe
orientare ogni intervento riguardante la vita delle persone? In occasione della
“Giornata mondiale 2017 per la Consapevolezza dell’Autismo”, una breve
riflessione che si snoda tra contributi di persone con autismo, famiglie e specialisti,
seguendo il filo conduttore offerto da due testi di Alain Goussot, docente di
pedagogia speciale all’Università di Bologna, da sempre impegnato per la realizzazione
di una società inclusiva e recentemente scomparso (marzo 2016).
In
occasione della "Giornata mondiale 2017 per la Consapevolezza sull'autismo", credo valga la pena provare a proporre
alcune riflessioni del pedagogista Alain Goussot, recentemente mancato. Nell’ultimo
periodo della sua vita aveva mostrato una particolare attenzione alle persone
con autismo e alle loro famiglie, cui aveva dedicato due libri: “Autismo: una sfida per la pedagogia speciale” (2012), e “Autismo e competenze dei genitori”
(2016).
In quest'ultimo testo, in particolare, l'autore si propone di affrontare “la questione dell’autismo dal punto di vista dei genitori, partendo dall’idea che i genitori sono insieme esperti dei propri figli, ma anche esperti di vita […] esperti spesso misconosciuti, poco ascoltati, e anche poco considerati dal “sistema esperto”. Poco considerati sul piano della produzione di conoscenze per impostare un progetto che abbia una “base scientifica”. Goussot prosegue evidenziando come si tratti di un problema della maggioranza dei genitori che, per diverse ragioni, si rivolgono al sistema esperto, spesso visti più che come portatori di saperi e attori-autori di progettualità, come destinatari d’interventi e portatori di problemi. Secondo l'autore è, quindi, necessario un rapido cambio di prospettiva da parte di servizi e specialisti, cambiamento che lo ha riguardato direttamente e che si è tradotto in un percorso avviato nel primo dei suoi testi e culminato nel secondo che l'autore descrive nel seguente modo: “Questo lavoro è il frutto dell’incontro tra un docente e ricercatore universitario e un gruppo di genitori di bambini diagnosticati come rientranti nello spettro autistico; un incontro che si è costruito nel tempo tenendo conto della complessità delle singole situazioni”.
In quest'ultimo testo, in particolare, l'autore si propone di affrontare “la questione dell’autismo dal punto di vista dei genitori, partendo dall’idea che i genitori sono insieme esperti dei propri figli, ma anche esperti di vita […] esperti spesso misconosciuti, poco ascoltati, e anche poco considerati dal “sistema esperto”. Poco considerati sul piano della produzione di conoscenze per impostare un progetto che abbia una “base scientifica”. Goussot prosegue evidenziando come si tratti di un problema della maggioranza dei genitori che, per diverse ragioni, si rivolgono al sistema esperto, spesso visti più che come portatori di saperi e attori-autori di progettualità, come destinatari d’interventi e portatori di problemi. Secondo l'autore è, quindi, necessario un rapido cambio di prospettiva da parte di servizi e specialisti, cambiamento che lo ha riguardato direttamente e che si è tradotto in un percorso avviato nel primo dei suoi testi e culminato nel secondo che l'autore descrive nel seguente modo: “Questo lavoro è il frutto dell’incontro tra un docente e ricercatore universitario e un gruppo di genitori di bambini diagnosticati come rientranti nello spettro autistico; un incontro che si è costruito nel tempo tenendo conto della complessità delle singole situazioni”.
Il filo invisibile che sembra unire i due testi è la costante ricerca da parte
di Goussot di proporre un pensiero aperto sull’autismo al di là di
riduzionismi tecnico-scientifici, un pensiero che nasce e si sviluppa nel
coinvolgimento, nel confronto e nell’ascolto delle persone con autismo e dei
loro famigliari. Un altro aspetto che colpisce particolarmente ed è strettamente
legato al precedente, è lo spazio e la rilevanza che è assegnata agli aspetti concernenti
l’imprescindibile dimensione etica di progetti e interventi.
Vorrei, quindi, riprendere alcuni passaggi di questi due libri che ritengo essere particolarmente
importanti e significativi, soprattutto perché relativi al pensiero e agli
studi di persone che convivono con l’autismo.
Michelle
Dawson è una donna autistica di Montreal, dove vive e lavora come ricercatrice
nell’equipe del Dipartimento di neuropsicologia del Professor Laurent Mottron.
La Dawson è una persona molto attiva per la difesa dei diritti e dell’identità
delle persone con autismo, perché non siano considerate esclusivamente e
prioritariamente come malate e/o disturbate, ma principalmente come minoranza
culturale. Secondo lei l’autismo dovrebbe essere capito, accolto e messo in
condizione di essere se stesso nella società ed è “molto critica verso i metodi
comportamentistici che tendono a volere normalizzare e quindi a violare la
dignità del soggetto autistico e il suo particolare funzionamento; considera
anche eticamente scorretti metodi come l’ABA nella misura in cui trasformano la
vita del bambino in un addestramento continuo che non tiene conto del suo
linguaggio specifico, del suo modo di comunicare e del suo peculiare
funzionamento (come ben descritto nel suo importante saggio The misbehaviour of behaviourists)”.
Dopo averla intervistata A. Goussot riporta, inoltre, come l’autrice affermi
che vi sia “un problema etico molto serio per quanto riguarda gli interventi
con l’autismo: un problema etico a due livelli: 1) nell’ambito della ricerca
scientifica; 2) nell’ambito dell’intervento pedagogico, riabilitativo e
terapeutico”.
In
particolare l’autrice e l’equipe di ricerca e lavoro di cui fa parte rilevano
come rispetto alle persone con autismo vi sia “una differenza fondamentale tra
dire che dobbiamo educarli a utilizzare i nostri strumenti culturali per stare
nel mondo della maggioranza e dire che dobbiamo trasmetterli questi strumenti
ma che li useranno con le loro modalità particolari. Dal punto di vista
dell’intervento educativo lo scopo del supporto non è di farli assomigliare ai
non autistici, ma di permettere loro di accedere ai materiali che costituiscono
la cultura umana nel senso lato, includendo la loro. […] I valori e le pratiche
che giustificano la rieducazione sono quelli che permetterebbero alle persone di
condurre una vita conforme all’idea che se ne fa la maggioranza. […] Dal nostro
punto di vista sarebbe meglio utilizzare un tipo di pedagogia che permetta alla
persona autistica in qualche modo di trovare un suo adattamento che non passa
per forza tramite l’assimilazione pure semplice dei comportamenti non autistici”.
Secondo
A. Goussot la proposta sarebbe quella di una pedagogia “dell’adattamento
reciproco e dell’incontro che favorisca la crescita, l’apprendimento del
soggetto autistico rispettandone la sua identità. Ecco quello che propone la
Dawson affermando che ogni intervento educativo deve fare i conti con la sua
dimensione etica”.
A
tal fine è suggerita una sorta di decalogo etico/pedagogico elaborato dalla
Dawson:
- tener conto
delle caratteristiche comportamentali del bambino autistico (deficit socio
comunicativo, interessi percettivi) per lo sviluppo di un approccio
educativo centrato sulla persona;
- mettere
l’accento sulle capacità e non sui deficit;
- usare un
approccio anche di tipo comportamentale ma flessibile in grado di far
crescere il livello di abilità del bambino;
- utilizzare
l’analisi funzionale per comprendere anche atteggiamenti e comportamenti;
- sviluppare le
capacità pratiche verbali e non verbali a livello comunicativo tenendo
conto dei meccanismi percettivi e dei vissuti per rafforzare le competenze
di gestione dell’interazione;
- modificare
l’ambiente, adattarle bisogna interessi del bambino, aumentare la
comprensione reciproca nell’interazione per diminuire i fattori di stress
e favorire lo sviluppo degli apprendimenti;
- partire dagli
eventi della vita quotidiana perché sono produttori di senso per il
bambino e favoriscono l’acquisizione di nuove competenze;
- sapere che le
routine e anche i rituali sono importanti perché riducono gli stati di angoscia,
tranquillizzano il bambino e favoriscono la sua crescita;
- favorire il più
possibile l’interazione con il pari non autistici perché solo così possono
vivere le proprie emozioni e organizzare delle strategie per gestirle
sentendosi valorizzati;
- strutturare le
attività senza cadere nell’ossessione di trasformare tutti momenti della
vita del bambino in esercitazione; anche bambino autistico ha diritto al
piacere anche se il modo di viverlo non è quello della maggioranza.
La
seconda persona di cui Goussot propone ampiamente pensiero e riflessioni è
Barbara Donville, madre di Robin, un ragazzo autistico, psicoterapeuta e
docente a Parigi all’Hecole des hautes etudes en Sciences Sociales.
La
Donville parla direttamente ai famigliari, portando la propria esperienza e
proponendo alcune prospettive di vita e lavoro a partire da una presa di
posizione molto critica e determinata nei confronti degli specialisti e del
sapere tecnico/scientifico che, spesso, anziché aiutare e accompagnare, umilia
e opprime: “I genitori si rendono conto che molte cose che sembravano acquisite
e che si erano consolidate a un certo punto spariscono. Il bambino disimpara!!
Non lo riconoscono, hanno veramente sentimento di trovarsi di fronte a qualcun
altro, e il pediatra che lo vede regolarmente non dice nulla, non dà nessuna
risposta, se non che è colpa loro e che sono loro ad angosciare il bambino […]
Voi che non avete potuto, saputo comprendere che in fondo siamo noi gli esperti
di noi stessi, che siamo i soli a poter decidere se ciò che viviamo è felice o
infelice, siamo gli unici fondatori del nostro potere. Quando niente di tutto
ciò vi è stato rivelato, quando la terribile diagnosi finisce per cadere come
un coltello tagliente, e vostro figlio e improvvisamente etichettato, catalogato,
vi sentite così esausti, impotenti, sentite di non avere un’altra scelta che
sottomettervi al discorso ufficiale e seguire il percorso istituzionale: è
l’unica “soluzione” che vi è offerta, quando tutte le porte l’una dopo l’altra
si sono richiuse”. La Donville, tuttavia, non si ferma a questa parte
maggiormente critica di un certo modo di porsi e intervenire da parte di molti
servizi e di specialisti (non di tutti ovviamente), ma cerca di offrire
prospettive e speranze: “quando ho preso la decisione di occuparmi da sola di
mio figlio, una prima evidenza mi è apparsa: quello che bisognava fare aveva
più a che vedere con l’educazione, che non con la rieducazione. Bisognava
educare le mancanze, le numerose mancanze, tutti quei piccoli niente che formano
tuttavia la personalità dell’uomo e questo fin dalla nascita. In effetti, ad
ogni istante nelle mie giornate passate con mio figlio, ero davanti a delle
mancanze: mancanza di comprensione e quindi d’iniziativa, mancanza di
imitazione e quindi d’interesse per l’ambiente […] La vita con vostro figlio
autistico richiede di concepire la vita in un altro modo, perché questo bambino
funziona in modo diverso da noi. […] Non bisogna fissare nessun obiettivo
immediato a breve termine, ma concepire le cose in un altro modo: non occorre
aspettarsi nulla di particolare da una situazione, né dal cammino che farete
con vostro figlio. Perché nulla di quello che succederà avrà il volto di quello
che avevate immaginato. […] Occorre non portare nessun giudizio sul vostro figlio:
con il suo funzionamento particolare, non fa nulla con intenzione, non lo fa
mai apposta. Dovete capire che le sue reazioni sono sempre frutto della sua
visione locale del mondo che lo circonda. Non dovete neanche giudicare voi
stessi: la situazione è difficile complessa. Allora niente eroismo, fate quello
che potete, al vostro ritmo, non siete né delle macchine né dei maghi. Fate
quello che potete per rispettare voi stessi; e soprattutto non dimenticatevi di
voi stessi”.
In
ultimo vale la pena riportare le riflessioni che A. Goussot cerca di offrirci,
accompagnando e incontrando vari saperi pedagogici, filosofici e tecnico
scientifici, con le voci di molte persone con autismo e dei loro famigliari. Riflessioni
che sono anche il risultato del lavoro di una persona che ha saputo mettersi in
discussione e rinnovare il proprio sapere attraverso un cammino di
condivisione, andando oltre le cornici istituzionali che spesso proteggono e
ingessano i diversi professionisti tecnico/scientifici (medici, psicologi,
educatori, terapisti …), in un ruolo che spesso più che di aiuto si rivela
essere di giudizio. Tutto ciò con la necessaria consapevolezza, come ricorda
l’autore, che se è fondamentale ascoltare il punto di vista delle famiglie e
“delle persone autistiche ad alto funzionamento che scrivono di sé e ci
spiegano come apprendono”, tuttavia dobbiamo sempre mantenere la consapevolezza
che anche in questo caso “non si può generalizzare” e che i punti di vista e i
vissuti delle persone possono sempre essere diversi e cambiare nel tempo.
Interrogandosi
preliminarmente sul perché sia importante occuparsi di autismo Goussot propone
alcune riflessioni di carattere generale e trasversali a tutta una serie d’interventi
in ambito socio-sanitario. In particolare evidenzia come “ogni approccio o
trattamento educativo veicola una concezione della società, degli
apprendimenti, dei rapporti tra le differenze e della formazione dell’uomo. […]
Come si interviene è strettamente collegato a come si guarda, al cosa si vede e
alla concezione che si ha dei rapporti tra maggioranza normativa e minoranze,
normalità e devianze, patologia e salute. […] Non v’è apprendimento ed
educazione possibile senza relazione, senza dimensione emozionale ed affettiva,
senza l’attivazione di processi comunicativi. […] Sembra che i vissuti del
soggetto autistico non contino, che i suoi sentimenti, e il suo modo di
conferire senso a quello che prova nel contatto con chi lo deve educare alle
buone maniere, non abbia importanza e sia del tutto secondario rispetto alle
performance che deve dimostrare per essere adatto, o meglio adattato al vivere
con gli altri. Emozioni, sentimenti, relazioni, modalità comunicative,
linguaggi, senso e significato non sembrano dover riguardare il soggetto
autistico che deve essere trattato e curato per essere formattato e adattato in
modo funzionale a quel che viene considerata come norma”.
Da
queste riflessioni Goussot rilancia una prospettiva e un impegno cruciali: “… c’è
una dimensione, una sfida etica che riguarda l’impostazione del tipo di
intervento che si propone rispetto soggetto autistico. Questa dimensione etica
riguarda la dignità del soggetto autistico, la sua integrità come essere
diverso dalla maggioranza, e quindi la necessaria tutela del suo diritto di
esistere in quanto autistico con il suo modo di essere, cioè con la sua
identità culturale. La sfida etica dell’azione pedagogica e quella di garantire
i diritti di cittadinanza la persona autistica e di tutelare la sua
soggettività in una prospettiva pluralistica della società”.
Proprio
su questa idea di società si chiudono le riflessioni di Goussot, riflessioni
importanti e umane che, credo, valga la pena riproporre: “… L’idea di un noi
come comunità aperta, dialogante accogliente potrebbe esser l’immagine di un noi
dove operatori dei servizi, soggetti del cosiddetto terzo settore, famiglie,
scuole soggetti autistici formano insieme una comunità dove tutti sono attori-autori
di una costruzione comune che valorizza le differenze e le singole storie.…”
Attori
e autori. Credo che troppo spesso all’interno dei servizi e dei percorsi
istituzionali ci si fermi al primo termine di questo binomio, quasi la vita
fosse una recita la cui regia è sempre in mano ad altri, dimenticando che le
persone con autismo, le loro famiglie e noi tutti siamo, o dovremmo essere,
anche e soprattutto autori della nostra vita. Riconoscere a tutti questo doppio
ruolo di attore/autore credo sia fondamentale per contribuire alla costruzione
di una comunità realmente inclusiva e passa principalmente, come afferma
Goussot, dal “non trattare mai l’altro come un oggetto uno strumento ma sempre
con un soggetto un valore in sé. Il rischio che si corre spesso, soprattutto se
ci sentiamo detentori di un sapere tecnico scientifico, e quelle di trattare
l’altro come un oggetto di assistenza, come oggetto di studio di diagnosi, come
oggetto di classificazione”.
Parole
che riprendono quelle del filosofo E. Mounier e che A. Goussot ripropone a
tutti, in particolare ai professionisti, agli specialisti, perché siano
profondamente meditate:
“Tratto l’altro come oggetto quando lo tratto come
assente, come un repertorio di informazioni a mio uso o come strumento da utilizzare
a mio piacere; quando lo catalogo senza appello, il che vuol dire disperare di
lui. Trattarlo invece come un soggetto, come un essere presente, è riconoscere
che non posso definirlo, classificarlo, che è inesauribile, gonfio di speranze
e che dispone di queste speranze: è quindi dargli credito. Disperare di
qualcuno è disperarlo. Il credito della generosità, al contrario, e fecondo
all’infinito. Essa è appello, invocazione, e questo appello nutre”.